Oxenfree, un ottimo esempio di narrazione interattiva
E, forse, un modello per future produzioni Netflix à la Bandersnatch
Olly olly oxen free è una tipica espressione usata dai bambini anglofoni, al termine di nascondino e giochi simili, per indicare che il designato cercatore si arrende e dunque i compagni ancora nascosti possono venire allo scoperto. Tranquilli, non intendo aggrapparmi all’etimologia per esemplificare le emozioni che ho vissuto in questa esperienza videoludica, o per inferire conclusione alcuna sul significato dell’opera. Voglio solo avvisarvi che, al contrario di come la mia bestiale traduzione suggeriva prima di lanciare il gioco, il nome “Oxenfree” non prelude all'esplorazione di una terra libera da buoi (oxen, appunto), ma cita l’espressione idiomatica di cui sopra.
Nonostante l'iniziale disappunto per la mancanza di riferimenti a bovini, l’opera di Night School Studio mi ha rapidamente conquistato grazie alla sua brillante narrazione interattiva1; datemi tempo, e vi spiegherò (senza spoiler alcuno) il perché.
Cinque ragazzi si recano su un’isola disabitata, in quello che risulta essere un vero e proprio rito annuale, per vivere una classica notte sulla spiaggia: falò, uno zaino carico di birre, e voglia di spensieratezza. Queste sono le premesse del gioco: un walking-talking game (definizione che i creatori stessi hanno inizialmente fornito) in cui controlleremo Alex—una giovane che non se la passa benissimo, ma di cui non voglio raccontarvi altro—durante la notte sull’isola. Anticipare qualcosa sui personaggi sarebbe un delitto, infatti la caratteristica che ha reso Oxenfree un prodotto per me di grande rilevanza è proprio il continuo approfondimento di Alex e del rapporto con i suoi amici. Ciò non avviene tramite la statica lettura di codex di gioco, ma attraverso dialoghi interattivi agevolati dalla selezione di balloon che compaiono in qualsiasi momento sopra la testa della ragazza, e le cui innumerevoli combinazioni rendono ogni esperienza di gioco unica (oltre a garantire l’esistenza di molteplici finali). Niente di rivoluzionario eh, sia chiaro; ma la scelta di utilizzare queste nuvolette “funziona” molto bene per quanto concerne l’immersione del giocatore e la libertà di interpretazione concessa.
Funziona perché i dialoghi sono realistici, credibili—ovvero i giovani non sembrano teenager con in bocca frasi scritte da dannati adulti—e ogni opzione disponibile contribuisce a dare un tono differente alla narrazione. Funziona perché le chiacchere scorrono fluide, senza pause stranianti in attesa che il player scelga l’alternativa che possa portargli maggiore vantaggio: le nuvole si dissolvono infatti velocemente, mettendo pressione al giocatore e spingendolo a reazioni istintive che aumentano l’immersione. Funziona infine perché l’opera fornisce un’altissima densità di scelte, in quanto tutti in questo gioco parlano, parlano, parlano. E come potrebbe essere altrimenti? I ragazzi vengono infatti coinvolti nel corso dell’avventura in eventi sovrannaturali che mai avrebbero sognato di vivere e interagire diventa un espediente per esorcizzare le loro paure, oltre che per sostenersi a vicenda.
Oxensnatch e Banderfree
Nota di particolare interesse è che lo storytelling di questo gioco deve aver colpito anche Netflix, visto il recente arruolamento di Night School Studio come primo membro della sua divisione gaming. Netflix ha dichiarato di voler garantire la massima libertà creativa allo studio, ma viene naturale pensare che l’esperienza degli sviluppatori possa essere anche sfruttata per la realizzazione di “film interattivi” all’interno di un solido contesto pop, come Bandersnatch (il celebre episodio di Black Mirror). Oxenfree e Bandersnatch sono d’altronde prodotti affini che fanno della narrazione e dell’interattività la propria cifra stilistica, tanto da rendere non affatto scontata la domanda: in cosa gli approcci narrativi delle due opere differiscono? Stando alla descrizione che vi ho appena dato, infatti, i punti di contatto sembrano essere molti: numerose opzioni di dialogo, tempo limitato per agire, storia con più finali alternativi. Tuttavia, un’analisi più approfondita rivela una sostanziale differenza.
Le scelte di Bandersnatch sono rade, e (tralasciando le iniziali decisioni “tutorial”) portano nella maggior parte dei casi ad un avanzamento esplicito della trama: sempre due opzioni, spesso antitetiche, sono proposte al fruitore, e non esiste una reale possibilità di non agire, dato che Netflix stessa sceglierà una delle strade del bivio all’esaurirsi del timer. Le triforcazioni di Oxenfree invece—oltre a non imporre la necessità di un’azione, visto che è prevista l’opzione di tacere—non hanno mai un impatto così netto sull’evoluzione della storia, ma anzi inseguono un altro scopo: caratterizzare Alex. La ragazza è infatti un vero e proprio fantoccio destinato a essere plasmato dalle decisioni del giocatore, a differenza degli altri (quasi macchiettistici) membri del cast. Stessa cosa si può dire per i rapporti tra la protagonista e i comprimari; basti pensare che, al termine del gioco, compare persino un breve sommario che mostra come le scelte del player abbiano modificato la relazione di Alex con ciascuno dei suoi amici.
In modo completamente opposto rispetto all’episodio interattivo di Black Mirror—che persino incoraggia lo spettatore a fruire di multipli finali, attraverso lo strumento del riavvolgimento—la trama e le sue (molto più contenute) ramificazioni passano in secondo piano, rendendo l’evoluzione di Alex e delle sue amicizie il fulcro dell’esperienza. Il sacrificio dell’estrema malleabilità della storia in favore di un maggiore controllo sui personaggi e i loro rapporti è ovviamente una scelta autoriale, soggetta alle più disparate valutazioni individuali. Se però i due approcci vengono contestualizzati all’interno della filosofia Netflix—che identifica come competitors tutte le attività che i potenziali spettatori compiono al di fuori della piattaforma, e punta a massimizzare il tempo che gli utenti dedicano al consumo di contenuti—quello di Bandersnatch emerge in maniera preponderante: la curiosità di esperire finali completamente diversi e la meccanica del riavvolgimento, che ritarda l’inevitabile tedio generato da multiple run, fanno infatti sì che il watchtime medio superi abbondantemente il tempo richiesto per giungere a uno dei finali. Dunque, se anche Night School Studio dovesse essere coinvolto nella realizzazione di un nuovo esperimento narrativo Netflix, non è affatto garantito che le ampie diramazioni di Black Mirror vengano abbandonate per creare un’opera con maggiore focus sui personaggi e libertà di interpretazione, anzi. Sicuramente però la competenza del team di Oxenfree potrebbe rivelarsi un asset importante per la sperimentazione di forme di narrazione alternative.
Di fantasmi e buoi
Ho accennato alla presenza di elementi sovrannaturali nella sceneggiatura di Oxenfree e sarebbe un peccato non parlarne affatto, vista la loro rilevanza nei temi dell’opera. Ben presto, infatti, l’allegra scampagnata dei cinque ragazzi si trasforma in un enigma mistico a base di visioni inquietanti, qualche jumpscare (di troppo?) e presenze ultraterrene, che rende il gioco un vero e proprio titolo horror. Nonostante sia giusto sottolineare come tale atmosfera contribuisca ad aumentare la tensione e a fornire un certo senso di urgenza nello spostamento, giustificando peraltro il ritmo serrato dell’avventura, risulta difficile (almeno per me) ritenere la trama e i suoi temi principali elementi di spicco della produzione. Voglio spiegarmi meglio: se in un esperimento mentale spogliassimo il gioco della sua interattività, proponendo la storia con un altro medium, allora rimarrebbe ben poco di cui parlare. Non che sia un male, perché d’altronde The Medium is the Message, ma intendo affermare che non siamo di fronte a un’opera la cui pura sceneggiatura potrebbe conservare la stessa potenza anche in seguito a un cambio di medium; To The Moon, per dire, rimarrebbe una bomba emotiva anche se rappresentato in uno spettacolo di marionette. Oxenfree certamente riserva momenti in grado di strappare una lacrima o un sorriso, come alcune delle scene finali, ma ciò che resta davvero impresso di quest’opera sono i personaggi e l’acuta narrazione interattiva dei loro rapporti, incorniciati da una sfiziosa direzione artistica.
Oxenfree è stato per me una preziosa esperienza narrativa, ma anche un meraviglioso viaggio nel tempo che ha riportato alla mente i capodanni passati a bere con amici in casolari sperduti nella campagna toscana, le esplorazioni notturne di boschi a caccia di non si sa quale brivido, le liti che solo tre (o più) birre in corpo sono in grado di scatenare e che si dissolvono veloci come i balloon che ho tanto celebrato. Non posso garantire che questa opera produrrà su di voi gli stessi effetti nostalgici o di fascinazione, ma sento di poter affermare con assoluta certezza che io di buoi non ne ho proprio visti.
Il termine “narrazione interattiva” in questo articolo è usato per descrivere un tipo di narrazione in cui ogni minima progressione della storia richiede un’interazione da parte del giocatore, prevalentemente attraverso scelte di dialogo, e in cui non è previsto l’uso di cutscene. Tale forma di storytelling può essere riscontrata, oltre che in Oxenfree, in numerosi branching games, ovvero giochi in cui il giocatore definisce il corso dell’avventura e il suo finale tramite ripetute scelte. Narrazione interattiva non viene dunque usato come il corrispettivo di interactive storytelling (IS), termine coniato da Chris Crawford che presenta un significato molto diverso. Basti pensare che Crawford stesso afferma che l’IS (secondo la sua definizione) non può essere realizzato in un videogioco, ma costituisce, de facto, un nuovo medium. Si ben capisce che, non essendo David Foster Wallace, non posso neanche introdurre una questione così complessa in una nota a piè di pagina.