In un precedente articolo su Fumito Ueda si è accennato a uno degli aspetti più interessanti del suo modo di lavorare. L’idea da cui inizia lo sviluppo del concept – ha spiegato Ueda in un’intervista anni fa – è spesso ispirata da un artwork. Partendo da un’immagine o un dipinto e dalle atmosfere che esso evoca, il team si concentra poi sul gameplay, per passare infine alla trama vera e propria. Il modus operandi di Team ICO ha sempre seguito lo schema ARTWORK - GAMEPLAY - STORIA, ed è interessante constatare che mettere all’inizio del processo creativo la ricerca di un’atmosfera adeguata sia un elemento cruciale per descrivere la poetica di Ueda.
Generalmente il game designer non è portato a ragionare così: per ragioni commerciali e di sviluppo, la fase di produzione di molti videogiochi comincia dallo stabilire il gameplay o talvolta la storia, e da questi elementi le software house articolano poi il proprio discorso1; e non è un caso se Ueda (ma anche il suo team, a cui va grande merito), che può essere considerato una mosca bianca in questo senso, venga anche per questa ragione valutato da molti più sul lato autoriale che su quello di game design. Nonostante questo è lo stesso Ueda a preferire la definizione di designer rispetto a quella di autore, ma vorrei tornare sulla questione del suo metodo di lavoro, per cercare di capire che implicazioni esso abbia e perché sia stato così importante per la storia dei videogiochi, soprattutto in chiave letteraria. La ragione per cui è importante tornare sul lavoro di Ueda e approfondirlo è che c’è più di un motivo se il suo modo di fare sia stato uno degli snodi più importanti della storia dei videogiochi, ed è interessante (e forse non casuale) che ciò sia avvenuto a partire da un preciso momento storico, ovvero l’entrata nel nuovo millennio. Per affrontare la questione, vorrei fare riferimento ad alcuni scritti di Italo Calvino e ad alcune sue riflessioni sul ruolo della letteratura e a quelli che egli considera essere i valori più importanti da tenere a mente per un autore del nostro tempo.
NUOVI PROBLEMI, VECCHI PROBLEMI
Negli anni prima di morire, Calvino si interrogava molto su quale fosse la funzione precipua della letteratura e quali fossero i valori che essa avrebbe dovuto approfondire e tramandare mano a mano che il nuovo millennio si avvicinava. Il fatto che Calvino fosse così interessato al futuro della letteratura non era legato a una questione di pura storiografia letteraria – nel senso che la cifra tonda alla quale si andava incontro con l’anno 2000 non era determinante per identificare un prima e un dopo dei problemi ai quali il mondo si affacciava; al contrario, sono proprio quei problemi a determinare lo spartiacque tra generazioni.
Nel testo al quale dedica maggiore spazio per affrontare tutto ciò, Lezioni americane, Calvino identifica nella visibilità una delle questioni chiave. Ciò da cui parte Calvino nel parlare di visibilità è chiedersi come una nuova epoca si formi il proprio immaginario:
[…] chiediamoci come si forma l’immaginario d’un’epoca in cui la letteratura non si richiama più a un’autorità o a una tradizione come sua origine o come suo fine, ma punta sulla novità, l’originalità, l’invenzione. Mi pare che in questa situazione il problema della priorità dell’immagine visuale o dell’espressione verbale (che è un po’ come il problema dell’uovo e della gallina) inclini decisamente dalla parte dell’immagine visuale.
I. Calvino, Lezioni americane, pag. 88, Mondadori, 2016.
Calvino, elaborando alcune idee sull’importanza delle immagini che erano emerse nei decenni precedenti, si chiede però una cosa in particolare: non cosa sia più importante tra immagine visiva ed espressione verbale, ma cosa sia a determinare un nuovo immaginario. Era in effetti evidente già all’epoca che un nuovo immaginario collettivo stava venendo formandosi, e Calvino è convinto che esso sarà determinato da immagini nuove, più che da nuove parole.
Data l’importanza che ha tentare di lavorare a un immaginario nuovo, diventa più complesso capire da dove “piovano” queste immagini, vale a dire da dove sia possibile cominciare per sviluppare un nuovo senso del gusto e dell’estetica. Quello che ci si chiede è da dove debba partire un autore che aspira a essere valido e significativo per il suo tempo (e non solo), specie se per farlo egli debba provare a essere un generatore di immagini e idee il più possibili nuove – dove per nuovo non si intende mai visto, cosa di per sé impossibile, ma più adatto al suo tempo, inedito. Un grande innovatore è infatti tale quando riesce a essere un autore della propria epoca; e vista l’importanza che il XX secolo ha stabilito nell’esprimersi a partire dalle immagini – con conseguenze espressive e tecniche in ogni campo, dalle arti visive alla letteratura al cinema – viene da chiedersi da dove egli tragga le sue immagini, soprattutto perché oggi esse sono spesso più efficaci delle espressioni verbali per esprimere un determinato concetto o intento letterario.
Quello del capire da dove vengano le immagini che ci formiamo nella nostra testa è un problema affrontato anche dalle scienze, e non a caso viene citato da Calvino uno studioso dell’intelligenza come Douglas Hofstadter, che nel suo Gödel, Escher, Bach si chiede da dove un autore tragga le sue immagini mentali:
Si pensi, ad esempio, a uno scrittore che sta cercando di esprimere certe idee che possiede sotto forma di immagini mentali. […] egli sa da dove tutto ciò proviene? Solo vagamente. La maggior parte della sua fonte, come un iceberg, è immersa profondamente sott’acqua, non visibile, ed egli lo sa.
D. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach,
Gli autori che, come Calvino e come Fumito Ueda, adottano questo metodo di ricerca del proprio immaginario, sanno quanto è importante lasciare spazio alle visioni evocate dalla propria mente e come costruire attorno a esse le loro opere; quasi come se quelle opere fossero già lì, e il loro lavoro fosse quello di trovagli una giusta collocazione in termini di espressione. Tant’è vero che quando vengono interrogati sul significato del proprio lavoro, spesso autori di questo tipo sono restii nel darne spiegazione, o arrivano persino a dire che la propria opera non ne ha. Lo stesso Ueda dice che non vuole che la gente si aggrappi troppo ai temi delle opere, specie nei videogiochi, dove “aggrapparsi a un tema è troppo inefficiente”2.
E opere di questo tipo, in effetti, vanno spesso in direzione della fiaba o del racconto mitologico, più abituati per loro natura al raccontare per immagini o a partire da esse. Il fatto che dal Novecento le letterature mondiali abbiano dato un nuovo vigore al ruolo della favolistica e della mitologia non è un indizio da poco e va inteso in questo senso: fiabe e miti sono, dal punto di vista letterario, il tentativo più immediato di stabilire un rapporto diretto con la fonte di quelle immagini, delle quali l’autore si fa quasi soltanto emissario, canale di trasmissione.
Sino a quando il game designer è stato colui la cui poetica veniva identificata principalmente nella trama o nelle attività che richiedeva al giocatore, prerogativa fondamentale del suo concept era che trama e/o gameplay fossero il perno dal quale diramare il resto delle fasi di sviluppo. E infatti, se si considerano i videogiochi sino alla fine del secolo circa, dal punto di vista narrativo li si può spesso definire come tales, legends, talvolta dal taglio anche epico, dove a farla da padrone sono però ancora molti degli archetipi letterari della tradizione a cui si ispirano (il viaggio dell’eroe, il cattivo da uccidere, la predestinazione del protagonista, l’happy ending ecc.). È solo col lavoro di Ueda che i videogiochi si caricano di una valenza onirica, smettendo di essere per forza grandi racconti epici e divenendo fiabe immaginifiche, dove l’archetipo letterario non è più così identificabile; e gli stilemi, infatti, vengono ribaltati o rimescolati: il protagonista compie atti da antagonista, il nemico da sconfiggere è senza passato e il giocatore lo combatte talvolta non capendo il perché (almeno fino alla fine). Quello che fa Ueda è, dal punto di vista narratologico, fornire al giocatore la caratterizzazione dei suoi protagonisti senza motivazioni sufficientemente valide affinché essi diventino personaggi3. Questo meccanismo è molto più tipico della fiaba, dove assistiamo a eventi dalla forte carica evocativa ma non narrativa o drammaturgica. E proprio con l’espressione fiaba digitale Ueda si è riferito a ICO in passato. Questo modo di fare enfatizza il valore che ha quest’aspetto dell’opera: fiabe come ICO o come quelle di Calvino, racconti mitici e fantastici come Shadow of the Colossus o Le cosmicomiche traggono la loro forza dall’essere il motore del processo creativo, e non il risultato.
IL RUOLO DELL’IMMAGINAZIONE
A questo punto però viene da chiedersi cosa farsene del significato: solo perché la costruzione parte dal lato visivo, significa che le opere di Ueda non abbiano alcun portato letterario? Una delle possibili risposte deve partire dall’analisi di ciò che noi consideriamo immaginazione. Quando Ueda si immagina una terra proibita abitata da colossi giganteschi che devono essere abbattuti da un giovane straniero, sta contemporaneamente riempiendo tutto ciò di un qualche significato preciso?
Dal punto di vista autoriale, Calvino si pone la domanda in questo modo: per un autore, l’immaginazione è uno strumento di conoscenza o di identificazione col mondo? Quando progetta i suoi colossi, Ueda sta provando a conoscere meglio il mondo attraverso la sua opera, e quindi il suo processo creativo serve per analizzare la realtà attraverso una metafora mitologica? O, al contrario, prova solo a descrivere tale realtà?
La domanda non è da poco, perché in base alla risposta dipende anche lo statuto morale di un’opera come Shadow of the Colossus: quando l’autore prova solo a descrivere il mondo (nel tentativo di darne una qualche rappresentazione) non è detto che esso riempia il suo lavoro di significati morali su cosa sia buono e cosa malvagio; al contrario, se un autore crea la sua opera per conoscere meglio il mondo, allora si sta interrogando su cosa sia giusto e cosa sbagliato. Opere come quelle di Ueda, proprio perché partono da un processo che riguarda la formulazione di un immaginario visivo, tentano di fare l’una e l’altra cosa. Oltre che strumento di conoscenza e di identificazione col mondo, l’immaginazione può essere una terza cosa, ovvero “repertorio del potenziale, dell’ipotetico”4, una sorta di enorme ricettacolo da riempire di volta in volta.
Questo modo di ragionare ha il vantaggio che quando le immagini sono motore e primo frutto della ricerca dell’autore, sia egli stesso ad approfondire tali immagini, riempiendole di significato anziché svuotarlo. È celebre l’aneddoto secondo il quale John Tolkien, in un pomeriggio estivo, scrisse su un pezzo di carta la frase: “In una caverna sotto terra viveva uno hobbit”. All’epoca neppure Tolkien aveva chiaro chi e cosa fosse uno hobbit, ma proprio dopo aver scritto questa frase cominciò a farsi delle domande: come sono fatti gli hobbit? Cosa mangiano? Che aspetto hanno le loro caverne? È dal tentativo di rispondere a queste domande che egli espanse il suo progetto letterario. Come è risaputo, Tolkien aveva da sempre la passione per le mitologie e sin da quando era ragazzo lavorava a un’epica letteraria; ma è solo quando nella sua mente si è concretizzata l’immagine di un essere dal nome hobbit che vive in una caverna che egli ha cominciato ad approfondire la questione.
PEDAGOGIA DELLE IMMAGINI E AUTORIALITÀ
Se, come accennato all’inizio dell’articolo, Calvino ritiene così importante analizzare questo modo di fare per il futuro della letteratura, è proprio perché oggi siamo così inondati da immagini che esse risultano sempre di più prefabbricate e fatte ad hoc, mirate a inibire gli stimoli di pensiero, ed esse sono riempite troppo spesso solo di se stesse. E questo non può che generare sempre più epigoni. Porre al centro del proprio intento letterario l’aspetto visivo dell’opera comporta un interrogarsi sul valore del nostro rapporto odierno con le immagini. Attraverso il modo di intendere e interpretare le immagini che si è formato nel tempo, a essersi stabilito è un meccanismo che tende a creare epigoni: ogni foto scattata, ogni immagine disegnata, perché piaccia e quindi perché funzioni deve assomigliare a quelle già scattate, essere uguale a tutte quelle che l’hanno preceduta; deve rifarsi a un modello.
Il nostro rapporto odierno con le immagini tende a creare molti epigoni e pochissimi autori veri e propri. Questo non vuol dire che ciò sia necessariamente un bene o un male, non è questo l’oggetto in questione; ma da un punto di vista puramente espressivo diventa fondamentale operare un tentativo di “pedagogia dell’immaginazione”, come la chiama Calvino – non per essere originali a tutti i costi, ma per capire se quello che voglio esprimere personalmente e il modo in cui cerco di farlo siano guidati da desideri privati o indotti dalla quantità smisurata di immagini a cui sono sottoposto. Ed è proprio questo a stabilire la differenza fra autore ed epigono. L’autore si interroga sul proprio immaginario, e poi su di esso lavora: ne ricerca le forme, i contenuti di significato, la messa in scena; l’epigono deve preoccuparsi solo di trovare corrispondenze e di escludere l’immaginazione come l’abbiamo intesa prima, come repertorio del potenziale. Il game designer che decide di sviluppare un concept a partire dalle proprie immagini mentali (come una serie di artwork convincenti) più che preoccuparsi di trovare corrispondenze con dei modelli preesistenti, punta a crearne di nuovi. Correndo anche il rischio maggiore a cui può andare incontro un creatore di videogiochi, ovvero quello di non essere sostenibile economicamente.
Quando Ueda fa notare che il metodo di lavoro segue lo schema ARTWORK - GAMEPLAY - TRAMA dice un'altra cosa molto interessante: dopo aver stabilito l'aspetto visivo in via definitiva, tocca studiare e vagliare tutte le possibilità relative agli altri due aspetti. Va da sé che le scelte, ora, conseguano dalla prima parte del processo, e ciò vuol dire che la disposizione nella quale si trova il team al momento di progettare queste porzioni di game design deve fargli fare uno studio a ritroso sulla validità di quel gameplay o di quella trama. Se il team non è in grado di creare le giuste corrispondenze del gameplay con l'artwork che è stato stabilito, allora quelle meccaniche di gioco sono da scartare. L'opera prende forma mano a mano restringendosi, come del liquido versato in un imbuto. Quello che hanno fatto Ueda e Team ICO è trovare le giuste soluzioni5 di trama e di gameplay sulla base dell'immaginario che si sono creati. Il processo di game design, visto dal loro punto di vista, diventa l'operazione di tradurre in meccaniche pure le logiche visive che vi preesistono.
UEDA E LA STORIA
Un autore come Fumito Ueda ha dimostrato di essere fondamentale per l’imprinting dei videogiochi, perché il suo metodo di lavoro ha dato maggior spazio al ruolo dell’immaginazione all’interno del processo creativo: perché qualcosa si riempia di nuovo significato, deve prima essere svuotato di tutti i significati precedenti. Perché io arrivi alla fine di ICO o SotC e cominci a interrogarmi sul significato di ciò che ho vissuto, devo prima apprezzare il valore contemplativo ed evocativo della mia esperienza. Viene da pensare che se Calvino avesse avuto modo di affrontare il lavoro di Ueda egli lo avrebbe apprezzato in virtù di queste qualità, in quanto generatore di idee potenziali.
Mentre fa queste riflessioni, Calvino è infatti scettico sul futuro della letteratura fantastica, proprio a causa del profluvio di immagini prefabbricate al quale il nuovo millennio stava per andare incontro. Perché le soluzioni che si presentano sono due: o le immagini si riciclano fra loro in cerca di nuovi significati (ed è ciò che avviene col post-modernismo6 o con la comparsa costante di epigoni degli epigoni); oppure qualcuno prova a battere nuove strade, partendo da zero nei limiti del possibile, creando immaginari che si carichino di significato ipotetico, non stabile. L’importanza del metodo di Ueda sta proprio nel fornirgli questa possibilità, quella cioè di essere costruttore. E in questo senso il suo lavoro è duplicemente rilevante: da una parte perché egli fa ciò con un videogioco, ed è proprio grazie all’unione di meccaniche e aspetti narrativi offerti dal mezzo che egli può partire da zero nella formulazione di un immaginario il più nuovo possibile, perché nessun altro mezzo avrebbe consentito la formulazione visiva o architettonica di un luogo come le Terre Proibite o il castello di ICO; dall’altra perché è stato forse il primo a farlo in quel modo preciso, e grazie al modello fornito da lui si sono aperte nuove strade e possibilità per altri aspiranti autori che hanno appreso la sua lezione.
C’è a questo proposito un altro passo di Calvino che voglio riportare, perché visto dalla prospettiva di come si è evoluto il videogioco nell’ultimo decennio non può non richiamare alla mente un altro autore. Calvino sta provando a rintracciare le ragioni che l’hanno portato a privilegiare così tanto l’importanza di una letteratura che evochi a partire dalle immagini, e ricorda i suoi primi rapporti con esse, avvenuto tramite fumetti e cartoni animati:
Passavo le ore percorrendo i cartoons d’ogni serie da un numero all’altro, mi raccontavo mentalmente le storie interpretando le scene in diversi modi, producevo delle varianti […]. Quando imparai a leggere, il vantaggio che ricavai fu minimo: quei versi sempliciotti […] non fornivano informazioni illuminanti; […] io preferivo ignorare le righe scritte e continuare nella mia occupazione favorita di fantasticare dentro le figure e nella loro successione.
Questa abitudine ha portato certamente un ritardo nella mia capacità di concentrarmi sulla parola scritta […], ma la lettura delle figure senza parole è stata certo per me una scuola di fabulazione, di stilizzazione, di composizione dell’immagine.I. Calvino, Lezioni americane, pag. 95, Mondadori, 2016.
È un aneddoto che ricorda molto da vicino la storia di Hidetaka Miyazaki, che quando da piccolo non riusciva a comprendere alcuni passaggi dei racconti fantastici e cavallereschi ai quali si dedicava, li riempiva a modo suo e si creava un immaginario personale. Ed è proprio questo modo di affrontare il processo creativo che Miyazaki mutua da Ueda, al quale ancora oggi fa riferimento come fonte d’ispirazione primigenia.
Questo particolare aspetto si riflette nelle opere di Ueda, che in questo senso sì ha generato degli epigoni a più livelli: oltre alle ricadute sul piano narrativo si pensi solo a come, da ICO in poi, molti autori di videogiochi abbiano capito l’importanza di ridurre l’HUD a zero o quasi; all’importanza del silenzio come colonna sonora dell’esperienza; o al valore di una architettura ambientale che, in quanto spoglia, può essere intessuta di trame dal giocatore.
Ed è un dibattito, quello sull’immagine usata non come veicolo di idee scandite ma come ricettacolo di informazioni potenziali, che riguarda tutte le forme espressive: già negli anni ‘30 Hitchcock disprezzava l’avvento del sonoro, perché era convinto che quella nuova caratteristica avrebbe creato un linguaggio nuovo e diverso rispetto al cinema, che per lui quasi muore nel momento in cui si introduce il suono sincronizzato7. Hitchcock sa che più l’immagine si carica di significati attraverso il verbale e meno sarà facile – come avrebbe detto Calvino – attuare una corretta pedagogia dell’immagine e dell’immaginazione. E non è un caso, infatti, che ancora oggi, dove tutto sa di già visto, le tecniche che più contribuiscono anche da un punto di vista cinematografico alla formulazione di nuovi immaginari siano spesso quelle che prediligono una ricerca puramente visiva più che di significato; seguano esse logiche più commerciali, come le tecniche di CGI dei blockbuster, o di ricerca puramente espressiva come fa una parte di cinema animato, fra i quali spicca il caso di Satoshi Kon – forse l’ultimo grande esempio storico e l’ultimo grande autore che, al pari di Ueda per i videogiochi, ha inciso nella formulazione di un immaginario visivo personalissimo e influente8 per i posteri.
Torniamo alla questione del nuovo immaginario che si è formato negli ultimi decenni. Se la lezione appresa da molti autori che si rifanno alle opere di Ueda è che centellinare i significati verbali diventa un’operazione fondamentale, egli è ancora più netto in questo: da interrogare non è la parola (scritta o pronunciata che sia) ma le immagini stesse; e a confermare l’importanza e l’attrattiva di un immaginario valido c’è un episodio della vita dello stesso Ueda: nel periodo in cui lavora come freelance a un progetto personale, egli crea come personaggio un ragazzino con un paio di corna. Quando Sony lo nota, è proprio il concept ad attirarla e a convincerla ad assumerlo: non la storia né le meccaniche, ma la forza evocativa di quell’immagine.
Il metodo di lavoro di Ueda ha fatto storia soprattutto perché esso lascia nel sottotesto dell’esperienza di gioco un fattore nuovo, la promessa fatta al giocatore: il fatto, cioè, che quelle immagini non abbiano il dovere di spiegare nulla, ma che al contrario tendano a nascondere i propri significati potenziali. E il luogo migliore dove nascondere la profondità – come sanno autori che generano immagini tra cui Ueda, Calvino o il citato Satoshi Kon – è la superficie.
Nel testo Rules of Play si accenna come, in game design, sia fondamentale stabilire da subito la meccanica di gioco. In un passaggio del testo si dice: “È dunque molto importante identificare le meccaniche di base all’inizio del processo di design, anche se viene modificato mano a mano che il gioco viene sviluppato. […] I game designers non creano soltanto contenuto per i giocatori, creano attività per essi, pattern d’azioni messe in scena nel corso del gameplay”.
Fumito Ueda in Interview Extra: Fumito Ueda di Cane and Rinse, 2019.
Robert McKee parla della differenza fra caratterizzazione e personaggio nel suo Story. La caratterizzazione è l’insieme di tutte le qualità osservabili di un individuo, mentre il personaggio si rivela attraverso le scelte di quell’individuo, specie quelle che, come spiega McKee, egli prende sotto pressione. Quando siamo in grado di identificare il personaggio e non più il semplice carattere, scatta in noi l’empatia. I personaggi di Ueda non sono veri e propri personaggi perché mentre la loro caratterizzazione è inevitabile, spesso non abbiamo ragioni sufficienti per giustificare le scelte che noi compiamo assieme a loro. L’empatia nei loro confronti è distorta, perché il fatto che volutamente non ci vengano date abbastanza motivazioni per le azioni che compiamo ci lascia spesso freddi, spaesati o semplici esecutori.
I. Calvino, Lezioni americane, pag. 92, Mondadori, 2016.
Giuste almeno secondo loro: il gameplay dei giochi di Team ICO è uno dei loro aspetti più critici.
Da segnalare che Calvino non era contrario al post-modernismo, al contrario talvolta ne difende alcune delle ragioni.
Hitchcock discute la faccenda nel documentario Hitchcock/Truffaut (2015) e nel libro da esso ispirato, Il cinema secondo Hitchcock.
Lascio qui un mio articolo dove ne parlo. Per chi fosse interessato, parlo un po’ di Kon anche in questo video, e consiglio il bel volume Satoshi Kon, a cura di A. Fontana e E. Azzano. In particolare consiglio il capitolo L’infinita trama del reale, di M. Ghilardi, dove si discutono molte delle questioni presenti in questo articolo.