Tra i suoi sostenitori è comune il discorso intorno all’inclusione del medium videoludico nell’ambita categoria delle espressioni artistiche. Essere arte, questo termine vago, dai contorni labili e sfumati, quasi inafferrabile nelle sue possibili declinazioni, sembra rappresentare un obiettivo fondamentale per qualunque forma di comunicazione che voglia affermare la propria dignità presso il grande pubblico. Così fa il videogiocatore appassionato che, interrogandosi se stia spendendo la sua vita in qualcosa di scarso valore, o se stia invece apprezzando un’opera degna di chi ha orecchie per intendere, preferisce di gran lunga la seconda versione e si batte, perché la spesa che fa del suo tempo sia ben ripagata.
Guardando i videogiochi di oggi, è comprensibile che tale battaglia non sia campata per aria. Anche solo a prima vista, è chiaro che il medium videoludico sia qualcosa di molto elaborato e strutturato su più livelli. Non più il classico “giochino elettronico”, come poteva apparire un ventennio fa. Eppure, il videogiocatore ha ancora molte difficoltà a comunicare con il profano, a spiegargli perché e in che modo le opere che ama siano più di semplici svaghi; anche solo che non siano roba per bambini, né per adolescenti asociali e un po’ rimbambiti.
Chi non si è sentito incompreso di fronte al genitore di turno che, non conoscendo e non immaginando la profondità di un’opera videoludica, l’abbia definita senza appello come una perdita di tempo? E quante volte all’appassionato è venuto da rispondere, spontaneamente, che ai videogiochi non manca nulla che cinema e letteratura abbiano, e che se è roba da rincoglioniti un gioco, allora lo sarà anche un film o un libro. Questo confronto, spesso ma non sempre generazionale, è di solito il punto di partenza del discorso sull’arte.
Death Stranding, 2019: un giochino elettronico che non lascia indifferenti.
Ma quindi i videogiochi sono arte?
Come dicevamo in apertura, l’idea di arte è vaga. Tutti noi, nel leggere o sentire questo termine, evocheremo nella nostra mente opere di varia natura che sappiamo essere arte; ma sapremmo davvero dire perché ne soddisfano i criteri? Riusciamo a distinguere quali siano le proprietà intrinseche che descrivono l’arte separandola da ciò che arte non è?
La difficoltà definitoria si aggrava quando per arte non possiamo neanche riferirci a determinate forme di comunicazione. Infatti, anche all’interno di una categoria riconosciuta come espressione artistica, non tutto è considerato degno di tale nome. Il cinema è un’arte, ma molti film sono considerati bassa manovalanza, a far loro un complimento; un dipinto può essere una crosta senza valore, o un inestimabile capolavoro da milioni di euro; tra i libri ci sarà una pietra miliare della letteratura mondiale, come un’operazione commerciale da quattro soldi (solo per modo di dire!) che vende per la popolarità dell’autore di turno, non per brillantezza letteraria.
Dobbiamo quindi aspettarci che anche per i videogiochi valga lo stesso principio, e sappiamo che è così. A God of War, Dark Souls e Metal Gear Solid si contrappongono prodotti di infima qualità che cercano di cavalcarne il successo senza alcun merito artistico. Lo stesso vale per qualsiasi genere, che avrà sempre esponenti di alta levatura, prodotti mediocri e schifezze inguardabili.
In un discorso sull’arte, perciò, a noi interessano i prodotti validi, quale che sia la categoria di appartenenza. Solo l’eccellenza in un dato campo può ambire al titolo tanto agognato, perciò è sui videogiochi migliori che bisogna puntare per portare alta la bandiera del medium e permetterne l’affermazione. L’obiettivo della battaglia è chiaro: convincere i meno avveduti sull’argomento che certe opere abbiano la qualità intrinseca che dovrebbe quantomeno generare ammirazione, quando non grande coinvolgimento emotivo, in chi ne fruisce. Ma allora che cosa manca, affinché si parli dei videogiochi in termini di opere d’arte?
La questione è molto ben dibattuta sul canale Youtube Wesachannel, nel video dal titolo “I videogiochi sono arte?”, in cui l’autore espone un punto di vista ben strutturato sull’argomento. “Arte”, di per sé, è un termine senza appigli alla realtà concreta, ovvero non illustra e comprende caratteristiche specifiche che ci permettano di definirne natura e ampiezza, per poi riconoscere in un oggetto estetico l’innegabile appartenenza alla categoria.
L’arte è bellezza? Ma i gusti sono diversi, così qualunque cosa può essere arte per il giusto osservatore; l’arte è complessità? Anche questo è relativo, e allora qualunque disciplina complessa, ad esempio la scienza, dovrebbe essere arte; forse l’arte è comunicazione? Ancora peggio, perché tutto ciò che è espresso da un essere umano è comunicazione. Così l’arte sarebbe qualsiasi cosa, e perderebbe il suo significato esclusivista.
Dice molto bene Wesa: arte è ciò che chiamiamo arte. Si tratta di un concetto del tutto arbitrario, nel quale facciamo rientrare o escludiamo ciò che stabiliamo debba o non debba rientrarci, senza motivi concreti che non siano il discorso pubblico. Starà agli appassionati di videogiochi combattere affinché la loro forma di intrattenimento preferita acquisisca la visibilità e il riconoscimento necessario a farsi percepire nel sentire comune come forma artistica.
L’argomentazione di Wesa è in qualche modo risolutiva della questione; tuttavia, nonostante getti ottime basi per una visione generale del fenomeno, termina in una tautologia che non offre spunti per una reale soluzione. L’ottima esposizione esprime verità difficili da confutare ma rimane monca, poiché si ferma un passio prima di comprendere che cosa debba cambiare nel sentire comune affinché un videogiocatore possa far valere le sue ragioni. Resta viva la nostra domanda, seppur leggermente variata: che cosa manca ai videogiochi per farsi riconoscere come forma artistica?
Ragioniamo sul rapporto che c’è tra i videogiochi e le altre forme d’arte, prendendo in esame quella che più spesso tiriamo in ballo per la nostra tesi: il cinema. Questo si serve del linguaggio della recitazione, mutuato dal teatro, e da quello della narrazione, campo della letteratura in generale. Sicuramente ingloba anche la fotografia per l’estetica delle inquadrature, e la musica, che fa spesso da sottofondo alle scene. Come il videogioco, il cinema si compone di elementi artistici di varia natura, per poi aggiungere ampiamente del suo, tramite il linguaggio che gli è proprio. Il racconto per immagini, infatti, non è un copia-incolla di letteratura e fotografia, ma una rielaborazione delle due attraverso il sistema di messa in scena tra regia, sceneggiatura, recitazione, musica e montaggio. Quindi, il cinema offre un’espressione artistica esclusiva, non replicabile per le altre forme d’arte di cui si serve.
Quando difendiamo l’artisticità del medium videoludico, mettiamo sul piatto delle nostre ragioni la somiglianza con il cinema, di fronte al quale i videogiochi non sfigurerebbero. Questo può essere vero (con riserve, poiché difficilmente la qualità filmica di un videogioco è la stessa di una grande opera cinematografica), ma non tiene conto del fatto che il videogioco non pretende di essere un film, né dovrebbe farlo, come un film non pretende di essere musica se comprende una sinfonia di Mozart. Semmai si serve di quella forma espressiva, alla quale però deve aggiungere il suo contributo artistico. Allo stesso modo, il videogioco non può rivendicare la sua artisticità solo per il fatto di inglobare la cinematografia, bensì dovrebbe emanciparsi come opera d’arte a sé, e non vivere parassitariamente come costola di qualcos’altro.
Occorre quindi chiedersi in che cosa risieda l’artisticità del videogioco, se non in quella presa in prestito che ne costituisce il corpo ma non la sostanza. E qual è il suo nucleo, l’elemento non replicabile per letteratura, cinema, musica e via dicendo? Il fatto che un videogioco sia, per l’appunto, un gioco. Il suo fattore di emancipazione è il gameplay, dove risiede l’anima e la ragion d’essere di un’opera videoludica.
Dark Souls 3, 2016: un gioco dalla struttura complessa su più livelli.
Così dicendo, abbiamo allo stesso tempo la soluzione e il problema: sostenendo che la componente ludica sia il nucleo del videogioco, e che l’arte sia da ricercare nel nucleo di unprodotto estetico, giungiamo alla conclusione che il videogioco è arte se lo è il suo gameplay.
Nell’immaginario comune, però, il gioco è un passatempo, uno svago, una distrazione dalla vita reale. Qualcosa di poco conto, di scarso valore se non per rinfrancare lo spirito e potersi occupare di attività più serie con rinnovata energia. Potremmo dire, in maniera neanche troppo azzardata, che il gioco è qualcosa di simile al sonno: il riposo è fondamentale, ma dormire non è arte.
La strada per il riconoscimento del videogioco come prodotto artistico non è senza uscita, ma è più impervia del previsto. È importante, come dice Wesa, che un nutrito e influente gruppo di appassionati combatta per la causa, ma forse occorre cambiare campo di battaglia. È necessario innanzitutto nobilitare il concetto di gioco, allontanandolo sempre più da quello di perdita di tempo, e lottare per affermarne l’importanza nelle nostre vite, nonché esaltare la preparazione, la bravura e la professionalità che si celano dietro chi il gioco lo inventa, costruisce e confeziona affinché sia per il destinatario un valido, stimolante piacere per la mente.
Ecco allora che può tornarci utile un’altra definizione di arte, che è condizione non sufficiente, ma perlomeno necessaria per tracciare la retta via: l’arte è opera dell’ingegno umano. Chi di noi, giocando ai grandi capolavori della storia dei videogiochi, non si è sentito dentro la testa di un geniale architetto, di un sublime stratega, di un brillante enigmista? Non è questo ingegno allo stato dell’arte? Se essere in grado di costruire enigmi, strutture equilibrate e complesse, sistemi di gioco profondi si può considerare opera dell’ingegno come un quadro, una scultura, una composizione musicale o un film, è bene rivendicarne il valore affinché agli artisti del videogioco venga tributato il giusto riconoscimento.