IL BARDO CHE NON POTEVA SCRIVERE VERSI
Marinare, bigiare, fare sega, fare plao, fare chiodo, fare filone, scavallare, fare blau, forcare, salare. Sono solo alcuni delle decine di modi diversi di riferirsi alla inestirpabile pratica di saltare la scuola. Mi ha sempre affascinato la varietà geolinguistica di questi modi di dire, una varietà che tradisce una ricerca di intimizzazione di un comportamento sentito così caro dagli studenti: nominando le cose le facciamo diventare davvero nostre. Come ricorda il luogo comune sugli eschimesi, che hanno 99 parole diverse per dire neve, cerchiamo sfumature e siamo sensibili alle differenze di ciò che ci riguarda più profondamente. Non è un caso, dunque, se in Italia, terra di notoria pigrizia e reticenza studentesca, di insofferenza dell’autorità e delle regole, ci sia una tale varietà di termini per parlare dell’atto fondativo dell’identità dello studente emancipato: saltare un giorno di scuola è, in un certo senso, rivendicare la propria autonomia, e quindi paradossalmente diventare adulti contraddicendo i criteri degli “altri” adulti.
Il bisogno della fuga dalle situazioni che non possiamo scegliere per noi stessi in totale autonomia è una costante non solo nella parte della nostra vita in cui andiamo a scuola. Anche la minima imposizione, è già troppo da sopportare per colui che cerca una libertà che è totale e irriducibile. Eppure siamo sempre vincolati a situazioni e contingentati in configurazioni che sfuggono al nostro controllo. Al di là delle contingenze materiali, sociali e politiche che accompagnano ogni scelta della nostra vita, vincolandole a un contesto definito e definendone possibilità e limiti, c’è un vincolo che potremmo chiamare metafisico, solo per capirci, visto che è forse il vincolo più fisico e meno “meta” di tutti. Prima di tutto noi siamo vincolati a noi stessi, alla nostra prospettiva, al nostro punto di vista. Noi siamo noi. Se usiamo metafisico, in questo contesto, lo facciamo per riferirci alla fondatività inaggirabile di questa evidenza. Prima di tutto noi siamo noi. Questo riconoscimento è tanto tautologico quanto ricco di significato. C’è dunque una fuga che è per definizione inattuabile, checché se ne tenti. Non avremo mai un riscatto da noi stessi, e ogni atto di fuga sarà sempre relativo, non potendo esso vincere il limite superiore della fuga totale e definitiva, sostanziale, da sé stessi.
Trascendere noi stessi è un desiderio ineluttabile, e il luogo privilegiato dove quest’angoscia si rivela è il linguaggio. Nella comunicazione, noi non cerchiamo che un motivo per smettere di comunicare e capirsi in una intuizione immediata. Un bisogno di riconciliazione con tutto, al punto che comunicare diventi superfluo, che non bisogni più spiegarsi. Il linguaggio non fa che parlare di questo desiderio perennemente frustrato. Noi siamo in lotta con il linguaggio per renderlo obsoleto, per esaurirlo ogni volta che apriamo bocca, dicendo tutto il dicibile, per riposarci dopo aver detto tutto. Pure sentiamo che il climax di quell’esaurimento è in effetti inesauribile, perché la realtà è insufficiente, ma di una insufficienza piena, solidamente presente, densa: è il tentativo di risolvere quell’insufficienza che rende necessario il linguaggio e la comunicazione, la creazione di una toppa a quella insufficienza, alla lontananza della realtà dalle nostre aspettative, una lontananza che tuttavia incombe ed è sinuosa, tutt’altro che lontana o inoffensiva. È la consapevolezza della parzialità che genera l’impossibilità di tirarsi indietro, una costante ansia dell’azione, la continua imminenza di una falsa partenza, l’imposizione della mente che ci forza a produrre, a scaricare la tensione dell’arte, a raggiungere l’orgasmo della creazione, a sottrarci al bilico dell’inespresso, del sottinteso, del non detto. Ogni atto artistico deriva dalla percezione di questa insufficienza radicale, che ogni autore vuole colmare con la sua opera. Interessante che per colmare una insufficienza che sentiamo reale, quasi materiale, sia necessario inventare una finzione, e dunque evadere dalla realtà che vogliamo riscattare.
L’arte ha un rapporto particolare con la fuga: essendo l’arte per vocazione simulativa di mondi possibili e di moltiplicazioni di prospettive, il suo merito più grande è forse quello di simulare l’irrealtà più irrealizzabile di tutte: la fuga da sé stessi. Sembra quasi un luogo comune della poesia lungo la sua evoluzione storica la costante alienazione del poeta empirico, lo estensore dei versi, nell’Io poetico, che diventa personaggio a sua volta di un racconto. Se ci pensate, i due testi fondativi della letteratura occidentale, l’Iliade e l’Odissea, sono testi senza autore. Quasi come a voler rispettare quell’atto fondativo, tutti i poeti successivi si sono nascosti tra i versi, hanno dissimulato la loro autobiografia nell’universalità di una storia che non era più la propria ma quella di tutti (ma quali tutti, poi?). Pessoa, con i suoi mille eponimi, Borges, che fu Omero, Dante che si ritrova nel mezzo del cammin di nostra vita, nella selva oscura, il matrimonio di Eliot, così ricoperto di layer mitici e poetici da sparire nell’opera di rimaneggiamento che si fa della propria vita, da cui comunque non si può prescindere o evadere davvero. Sarà sempre una finta, un inganno, perché ogni atto di evasione non farà che dimostrarci di nuovo quanto essa sia illusoria, rinserrandoci nella nostra prigione, facendoci scoprire alla fine di aver girato in tondo, o essere rimasti fermi nello stesso punto. Perché ogni fuga presuppone di nuovo qualcuno che la metta in atto. Eppure nella sua virtualità sarà informativa: fingendo di guardarci dall’esterno, possiamo pur sempre arrivare a sospendere abbastanza l’incredulità della nostra finta, da scoprire qualcosa di nuovo se non su noi stessi, sul concetto stesso di prospettiva e di fuga. Una certa tradizione che lega Eliot, Borges e passa per Heidegger, rivendica alla poesia questa virtù escapista in un senso nobile: il poeta non esprime i propri sentimenti individuali, né riporta la sua esperienza personali nella sua opera ma ha la forza di allontanarsi abbastanza dal coinvolgimento che lo vincola alla sua soggettiva da trasfigurare la sua ineliminabile prospettiva in un linguaggio che si sforza di essere universale. Per questa tradizione la poesia esprime implicitamente, nel suo stesso farsi, la drammatizzazione simbolica della fuga da sé. È la cosa più lontana dall'autobiografia e allo stesso tempo forse la sua vera realizzazione: il punto in cui il cerchio si chiude e allontanandosi da sé ci si riesce a esprimere davvero profondamente, evitando il sentimentalismo triviale, che è conformista nell’espressione di un sentimento che diventa sempre uguale a sé stesso, per accedere al piano in cui l’unicità del sentimento che si prova è sostanziata dal modo in cui si esprime. Le regole dell'emozione poetica infatti sono diverse dalle regole dell'emozione della vita, di cui le prime sono un sottoinsieme particolare.
Questo è il primo modo in cui l’arte si rapporta al tema della fuga. È la fuga dall’autore, che si aliena nel linguaggio, si fa attraversare da esso, spersonalizzandosi e illudendosi di raggiungere quella a-individualità che professa lo zen. Un pensiero molto simile come ho detto sopra, alle idee di Eliot in fatto di poesia1, o di Borges, quando ad esempio diceva che il bardo felice e spensierato dei versi di Withman non avrebbe potuto scriverli. L’io poetico e l’autore empirico sono due cose ben diverse e la poesia non dovrebbe ridursi a espressione di un sentimentalismo emotivo dell’autore empirico. Fosse stato così, Withman non avrebbe creato la figura del bardo che si agita nei suoi versi così tonanti di vita, visto che lui era piuttosto diverso nella sua vita di tutti i giorni. Lo stesso vale per Emily Dickinson, la cui monotona vita sembra non rispecchiare affatto i tormenti amorosi che lei, quindi, simula (e questo dovrebbe farci riflettere sulla accezione negativa che di solito diamo al termine). Come diceva Hitchcock i film sono come la vita senza le parti noiose. E addirittura anche quando l'arte cerca di raccontare la noia, non può che drammatizzarla, ridurla a dei pattern riconoscibili e dunque sottrarla alla sua autenticità quotidiana per renderla simbolo, come fa David Foster Wallace nel romanzo postumo Il re Pallido, in cui riesce a rendere eroico il lavoro tedioso di burocrati esecutori della agenzia delle entrate.
Il secondo modello di evasione è quello del lettore, di colui che si aliena non nella creazione di un’opera ma nella sua fruizione, ricevendo il lavoro già fatto apposta perché ci si perda al suo interno. I videogiochi sono forse la forma d'arte più disponibile a farsi usare in tal modo, proprio a causa della forma di interattività che richiedono e dell'immersione che quindi producono. È raro trovare qualcuno che sia dipendente dalla lettura, più facile è trovare una dipendenza dal videogioco. Ad appagare in entrambi i casi è il riconoscimento dei pattern dell'opera che fruiamo: il riconoscimento di schemi, ricorrenze, meccanismi e regole ci dà un senso di tranquillità e di controllo. Nel videogioco oltre a riconoscere i pattern, possiamo addirittura applicarli. Non che non sia possibile anche in altri medium, ma il momento applicativo non è parte integrante dell’opera nel film o nella lettura, mentre lo diventa nel videogioco, nel quale diventa fondamentale al farsi stesso dell’opera e quindi a un suo eventuale giudizio. Nel videogame infatti noi giudichiamo il modo in cui esso ci richiede l’applicazione dei pattern che ci ha insegnato a riconoscere. La sostanza ludica si compone di questo meccanismo di apprendimento-pratica. La differenza è che nella lettura il momento dell'applicazione dei pattern non è definito e chiaro come nel videogioco in cui traiamo piacere chimico dalla risoluzione di puzzle grazie ai pattern che abbiamo appreso. Con la lettura l'acquisizione di pattern è spendibile in modo più differito e meno gratificante proprio perché non c'è un contesto definito in cui spenderli. Nel videogioco tutto è su misura di applicazione e anzi essa è richiesta. I meccanismi ripetitivi di superamento di prove e reward innescano una forma di dipendenza dal piacere che suscitano. Siamo gratificati dal riconoscimento di regole precise e chiare. Questo è il principale motivo di ogni evasione nella finzione e ad esso è collegato un altro motivo: sbagliare senza pagare. Non ci sono costi in un mondo inventato, a parte il costo del biglietto richiesto per entrarci che è il proprio tempo reale2. Ma una volta scontato quello, l’evasione è potenzialmente senza limiti, la disincarnazione è totale: rimaniamo gusci vuoti, da riempire con la storia che preferiamo, e quando non ci riusciamo sentiamo il desiderio di tornare a “credere” nelle storie come quando eravamo più ingenui e ci risultava più facile perderci in un mondo di fantasia. Pensate al senso di meraviglia difronte a mondi che erano alternativi e paralleli e che non percepivamo come parassitari del mondo reale, quando eravamo bambini. Cerchiamo ogni volta di riprovare quel senso di realtà alternativa e di meraviglia non contaminata dal dubbio.
DISERTARE
Qual è allora la differenza tra l’evasione dell’autore e quella del fruitore? È la differenza tra la fuga del prigioniero e la diserzione del soldato dal reggimento. La prima è una forma di pigrizia, la seconda è una forma di onestà e di critica3. Quello che fanno le grandi opere è suggerire una evasione che sia profondamente critica, che dia gli strumenti per disinnescare quella forma di pigrizia della fuga dalla responsabilità e suscitare l’urgenza della creazione e dell’autorialità che ritroviamo nella diserzione dal battaglione degli omologati.
Esiste dunque questa terra di confine, questo selvaggio West epistemologico dove l’evasione e il ritorno coincidono, dove le fughe dalla realtà si trasformano in moti di invasione, dove le evasioni nel mondo della finzione, della menzogna e dell’interpretazione fantasiosa sono in realtà viaggi alla ricerca del fondo duro della realtà su cui la vanga dell’immaginazione si deve fermare. È il territorio di confine delle grandi narrazioni, storie inventate, complotti trasfigurati e stilizzati, ricerca di un ordine che nella realtà non esiste affatto. L’arte ci pone questo interrogativo, e ce lo pone ancor prima di avere un contenuto preciso, per il fatto stesso di essere una fuga nella finzione. È una fuga dal feedback della realtà che ci porta in mondi di finzione, dove possiamo sacrificare le verità all’altare della bellezza. Pure la realtà esiste. E pure, che essa esiste, si può dire solo nella finzione più sfrenata di tutte, che è il linguaggio. È quasi un paradosso o, se volete, una beffa che i segni immateriali debbano parlare di sassi e alberi: il limite del linguaggio rivelato dal linguaggio stesso, come in una dimostrazione di sommessa onestà.
Il linguaggio è l’immagine della frustrazione del nostro desiderio, quello cioè di far coincidere il pensiero, che scopriamo ben presto offrire così tanta libertà, con la realtà, che altrettanto presto scopriamo porci seri limiti fisici e concreti. Desideri infiniti e possibilità limitate di realizzarli sono alla base della meccanica della nostra percezione del mondo e di quello che possiamo ottenere al suo interno. La nostra aspirazione è di creare pensando, come il Dio della Bibbia, evocare l’essere materiale senza il sudore del lavoro, dal continuo rimestare della terra fino alla limatura stilistica e retorica del poeta. Il linguaggio ci dà speranza solo per disilludere tutte le nostre illusioni di conquista. In questa parabola tragica ogni opera d’arte è contemporaneamente una dichiarazione di sfida e la storia dell’acquisizione di una sconfitta. La storia dell’arte dunque non è altro che un catalogo di articolati errori e di mirabili fallimenti, ricordati più per il loro merito di ammonimenti che di trionfi.
A tale tragedia, che sembra dimostrare l’impossibilità di una felicità che corrisponde all’impossibilità di raggiungere la perfezione a cui aspiriamo, si offre una soluzione: la tragedia dell’imperfezione non deve essere fuggita, ma si deve abbracciare la consapevolezza della nostra natura duplice senza tentare di scapparvi, rimanendo in equilibrio tra i due mondi (quello divino e quello animale, quello dell’immaginazione e quello della realtà fisica), usando i mezzi dell’uno e dell’altro per esprimere potenza in virtù dei limiti a cui siamo vincolati. Come moderni Sisifo che continuano a risospingere senza posa il loro masso su per la montagna godendo del loro compito. Se in tutto questo c’è un messaggio morale, allora sarebbe quello stoico. La direzione da seguire per una vita felice è il riconoscimento del limite che la realtà oppone alla nostra fantasia, ma che ciononostante può essere compreso solo nella fantasia stessa. Lo spazio della soddisfazione è ritrarre in forma poetica quel limite e quel riconoscimento. Come scrisse una volta Eliot “per noi resta solo il tentare. Il resto non ci riguarda”. È la saggezza dell’umiltà, e l’umiltà è senza confini, proprio perché la superiorità della realtà rispetto a noi è senza confini.
Invece, il desiderio di voler realizzare tutto arrivando a trascendere sé stessi è analogo al tentativo di chi, per vedere il mondo in modo più chiaro, si mettesse a fissare il Sole. Questo sentimento è familiare a chiunque abbia mai provato l’angoscia del lettore: quella sensazione di costante e opprimente ritardo rispetto alla propria ideale lista di cose da giocare, vedere e leggere. Pensate al senso di vacuità che ci assale quando finiamo un grande videogioco, come se sapessimo che sforzo bisognerà fare per trovare di nuovo qualcosa di così meraviglioso. Chissà che a un certo punto il tempo che ci separa dal prossimo capolavoro sarà più lungo di quello che ci rimane da vivere…
UNO SQUALLIDO CATALOGO DI ERRORI
Le storie esistono per risolvere il mondo ma l’unico modo che trovano per risolverlo è complicarlo ancora di più, mettere ordine qui costa sempre un po’ più di vuoto da qualche altra parte, secondo la legge ineluttabile di una entropia che è l’unica vera divinità del nostro universo. E la fine di una storia è la resa difronte a questa evidenza. Viviamo nella dimensione eterea della finzione segnica, al suo interno possiamo riferirci a cose solide come la roccia, ma rimarremo pur sempre nel regno della fantasia, perché non possiamo toccare le parole, né le parole possono toccare il mondo o attaccarsi ad esso. L’unico modo per arrivare al mondo in modo brutalmente materiale è sacrificando la sottigliezza semantica che ci fa penetrare i suoi misteri più riposti. Per arrivare al mondo in modo discorsivo dobbiamo almeno in una qualche misura sacrificarne la parte più brutalmente materiale. E viceversa, se vogliamo toccare il mondo, viverlo materialmente, non possiamo pensarlo concettualmente. Il tocco del volto nello schermo alla fine di Persona rimarrà per sempre impossibile. Il bambino continuerà a toccare solo uno schermo freddo. È questa la terra di mezzo, a metà tra divini e terreni. Non abbastanza animaleschi da vivere il mondo in modo materiale, e non abbastanza divini da comprenderlo con una sola intuizione. Siamo nella zona intermedia della fatica del concetto, in cui le nostre possibilità, in virtù dei vincoli che le rendono tali, ci danno la precisa misura della nostra fatica. Eterni Sisifo, non possiamo né lasciar perdere il nostro masso godendoci la vita in un idillio di cieca istintività animale, né distruggerlo in una trasfigurazione divina di forza celeste per fuggire il nostro compito. Queste due sarebbero fughe negative, evasioni di prigionieri che si sentono in gabbia e che scambiano le leggi di una realtà ineluttabile con le sbarre di una prigione. Sisifo, invece, trascinando il suo masso, mette in atto la vera fuga, ben sapendo che non ha alternative, e che ciò che è inevitabile non dovrebbe deprimerci.4
Questa è la fuga positiva. Quella di chi spende la sua vita a inseguire la Poesia5. Quella di chi spera di dire qualcosa di talmente definitivo che tutto quello che dirà dopo sarà superfluo. Quella di chi si prende tre anni per fare tre minuti. Di chi posa la pena solo quando è grato, e chiede “con permesso”. Ma è una fuga che ottiene il suo riscatto perché torna indietro, si volta e vede ciò che si è lasciata alla spalle. Una fuga invasiva, che fa il giro in tondo per tornare al punto di partenza e per la prima volta conosce il luogo da cui era partita, arricchita della consapevolezza del percorso che ha compiuto. Questo insegna la fuga messa in scena dalle grandi opere: che dobbiamo ogni volta di nuovo riguadagnarci la realtà che abbiamo abbandonato. Che, anzi, la vera fuga è un atto di amore e di responsabilità nei confronti della realtà, un atto che attesta il rispetto di ciò che non possiamo cambiare, l’umiltà della sconfitta, e la risata difronte all’ineluttabile. Per quanto infelice potrà essere la nostra sorte, nella possibilità di raccontarla noi troveremo il nostro riscatto.
La fuga dell’evasore da quella che crede sia la sua prigione e la diserzione del soldato del reggimento sono due cose ben diverse. Dovremmo chiedere per noi stessi una diserzione che non si riduca al disimpegno, ma che anzi sia la precondizione per un impegno onesto perché fedele solo a sé stesso. Diserzione significa accettare la nostra inaccettabilità, continuare a inseguire la luce verde che inseguiva Gatsby, ma al contrario di Gatsby, vedendo la vanità dell’impresa, noi dovremo riderne. La risata edonista che gode del proprio fallimento è l’unica condizione che ci permette di essere pietosi di quello altrui. Diserzione vuol dire voler continuare a essere mancanti, a essere incompleti e non finiti, accettando il limite che ci condanna a dovere sempre spiegarci di nuovo. Finché sentiremo il bisogno di disertare, vorrà dire che saremo mancanti, che ci sarà uno spazio per migliorarci e per cambiare. Eternamente soddisfatti della nostra eterna insoddisfazione. Quando crederemo di non dover più disertare, vorrà dire che saremo accecati da una illusione, quella di aver finito il lavoro.
Quella sarebbe la vera resa. La fuga senza ritorno di un prigioniero, in una prigione dorata. Ma pur sempre una prigione, magari fatta di pixel.6
Consiglio sempre in proposito il saggio di Eliot Tradizione e talento individuale, facilmente reperibile online.
Consiglio il testo di Wesa sulle 5 ragioni del videogiocare:
Riprendo qui una nota similitudine che Tolkien espone nel saggio Sulle fiabe, ma la sviluppo in senso invertito rispetto a come faceva lui. Tolkien stima l’evasione del prigioniero e condanna la diserzione del soldato. Secondo me è più evocativo stimare la diserzione del soldato come modalità di fuga positiva, piuttosto che l’evasione del prigioniero, visto che prigionieri lo saremo sempre, come ho detto nella prima parte dell’articolo. Alla fine, tuttavia, quello che dico è simile in parte a ciò che diceva Tolkien, ma senza lo svarione sul lieto fine, il messaggio cristiano e la salvezza ultraterrena.
Stephen Jay Gould, Quando i cavalli avevano le dita, Feltrinelli
Consiglio, in merito, uno dei romanzi meno conosciuti di Emile Zola dall’emblematico titolo L’opera, in cui si racconta della frustrazione fatale del non essere all’altezza delle proprie aspirazioni artistiche.
Questo ultimo paragrafo è una rielaborazione di un altro articolo: