Lo shoot ‘em up, che in altre decadi si chiamava solo “sparatutto” o “spara e fuggi”, è forse la più profonda fra le radici del video game: supera il gioco socievole nell’astrazione (sociopatica) dell’eroe solo contro l’universo - un universo rigorosamente retro, arcade e pre-social. Single player nell’anima, dove single sta per inavvicinabile e l’anima non risulta.
Una fantasia recondita liberata dal prossimo, un soliloquio dello spirito sintetizzato su schermo affinché l’indistinto turbamento che ci inchioda alle nostre vite terrene (o terree, atterrate o atterrite che siano) si chiarifichi, offrendoci una strettissima via per la salvazione: un volo in codice per altitudini superumane.
Di solito, contro l’eroe solitario (cioè noi, ego): tutto (imperi, flotte, dèi, galassie, civiltà, ecosistemi) e alle spalle del nostro decollo, sempre: una platea di impossibilitati, che hanno riposto in noi ogni loro speranza, ogni loro sguardo sognante, ogni loro promessa o premio o regno se faremo ritorno (come se fosse certo che non ritorneremo, come un addio che si pronuncia: “Buona fortuna”). Tutto o niente in un’odissea senza negoziati, che nessuno avrebbe mai affrontato se non ci fossimo stati noi, prescelti da un destino di solitudine, morte e distruzione. Una apocalisse si vinca o si perda, si spari o si venga sparati: comunque vada, finirà ogni cosa.
Di solito, nemici come stelle, innumerabili e strutturati in costellazioni, pattern, coreografie… cifre che significano un labirinto, il dedalo come sfinge cui deputare un minotauro esistenziale che debelleremo solo se sapremo conoscere ogni anfratto della sua roccaforte. Nello sparar tutto il senso della vita, delle moltissime vite che bruceremo in un samsara senza pace, si rivela, epifanico, nel superamento della foga, nel satori del riflesso puro, impensato. Per questo soprattutto esisteva il videogioco, per provvedere un portale su piani di percezione che altri orizzonti potevano appena additare.
Siamo pochi pixel cinti da un pericolo immanente mentre scarichiamo infiniti colpi su nemici infiniti che fanno la stessa cosa con noi, soverchiando con il numero la nostra irriducibile abilità. Essi sono talmente tanti, talmente densi i loro proiettili, da celarci oltre la vista il pensiero stesso del traguardo.
Ciononostante, di solito, si finisce con un grande botto, con un gran sole su Hiroshima, cui farà specchio un brillare immelanconito sulla carlinga del nostro Enola Gay intergalattico. Si finisce, di solito negli shoot ’em up, per scoprire che alla fine la macchina di morte eravamo noi, rinati infinitamente affinché delle nostre vittime si trascendesse ogni contabilità.
Si finisce e alla fine tu, nerd con i calli a calco di pulsanti, hai distrutto l’universo, hai prevalso sulle torme che volevano abbatterti e pure incassi un premio che nessuno conoscerà. Erano un inganno le ricompense, le folle sognanti con il naso all’insù; attraverso la stratosfera il tuo caccia brunito solca cieli troppo alti perché qualcuno lo riconosca. “Un satellite, forse” diranno; “Una stella”. Non sapranno dove sei stato, quanto in là ti sei spinto, non conosceranno quel che hai imparato (che non può essere trasmesso), non sapranno che pace che c’è lassù, alla fine dell’inferno. Tu sarai vissuto, attraverso la compulsione dello sparo come geyser di morte, e avrai calzato panni altrui tessendoli a tua misura.
Il videogame, quando funziona così, è la via della solitudine. Lo shoot ‘em up, quando funziona, mette in scena l’uno che divora il tutto, e cioè diventa tutto, e cioè scompare, confondendosi con il firmamento. Spara e fuggi, ti hanno detto. E tu hai sparato, e sei fuggito così lontano da non lasciare traccia.
(revisione di un post pubblicato nel 2013 sulla prima Silicon Arcadia)