The Last of Us Parte 2 segna un punto di non ritorno nella storia dei videogiochi: c’è un prima e un dopo tlou2 per un motivo molto semplice: non possiamo più non avere visto quello che abbiamo visto. Mi riferisco naturalmente alla qualità delle animazioni e in particolare all’espressività dei volti, alla recitazione completamente credibile esibita dai personaggi principali e alla perdita della necessità di chiudere un’occhio sui volti “fatti al computer” (una necessità che, nonostante tutto, era ancora presente in titoli quali Detroit Become Human o Death Stranding).
C’è un prima e un dopo Tlou2: i nostri ricordi e le nostre aspettative di videogiocatori non sono più gli stessi e da oggi in poi ogni tentativo di realismo espressivo che si collochi al di sotto dello standard dettato da Naughty Dog ci apparirà in qualche modo deludente o di ripiego. Quando dovremo di nuovo accontentarci sapremo che non è più inevitabile (soprattutto se consideriamo che il titolo esibisce queste qualità su PlayStation 4, un hardware vecchio di sette anni).
Così come il suo predecessore, quindi, Tlou2 finisce per essere un titolo storico, ma c’è da chiedersi se questo basti a farne un capolavoro. In effetti, ho citato un merito tecnico che, per quanto strumentale all’espressione artistica, da solo non la costituisce.
Come un grande attore non basta a fare un grande film, allo stesso modo dei personaggi magnificamente espressivi non bastano a fare un grande videogame, né sono sufficienti affinché si possa parlare di una grande storia. A ben vedere, una simile espressività non esaurisce neppure la caratterizzazione dei personaggi, della quale è solo uno strumento.
Riavvolgiamo un attimo. Come mai The Last of Us, il capostipite, è considerato un videogioco storico? In base a quale caratteristica? Di solito, lo si ricorda, indipendentemente dal giudizio che se ne abbia, per l’esempio che ha costituito di commistione quasi senza soluzione di continuità fra la componente strettamente ludica e quella narrativa. Letteralmente, il suo seguito rinuncia a questa impostazione per imbastire un gioco più canonico dal punto di vista del modo di raccontare, ricco com’è di lunghi filmati non interattivi che abdicano al tentativo quasi totale di “narrare giocando”, tra virgolette, che fu fatto nel 2013.
Le ragioni di questo passo indietro sono, ancora una volta, legate all’avanguardia tecnica raggiunta in fase di motion capture ed elaborazione dello stesso (di fatto, come avevo già discusso nel video “Death Stranding, il cinema nei videogiochi”, la recitazione è in mano agli autori che possono modellarla per i loro scopi come mai avrebbero potuto semplicemente dirigendo degli attori): un simile esito da un punto di vista della resa espressiva dei personaggi rischierebbe di andare sprecato se lasciato troppo spesso alla sola gestione della camera da parte del giocatore ed è del tutto comprensibile come chi lo raggiunga decida poi di dedicargli i riflettori. The Last of Us Parte 2 vuole mostrarci i suoi volti e comunicare attraverso di essi e per farlo deve rinunciare a quanto intrapreso nel primo episodio sul versante della narrazione attraverso il videogioco spostandosi più decisamente verso quegli intervalli cinematografici che sono la cifra, per esempio, di un Hideo Kojima.
Se Druckman prima di questo sequel era un po’, sia detto per dire, il “contrario” di Kojima ora ne adotta le soluzioni. In questo senso dovremmo domandarci, al netto del miracolo tecnico che abbiamo descritto, se questo uniformarsi costituisca una vittoria o una sconfitta per il medium.
Un’altra caratteristica notevole del primo Tlou rispondeva al motto del suo autore “storia semplice, personaggi complessi”. La scelta era quella di subordinare la trama ai caratteri con lo scopo di farne emergere le peculiarità e la personalità. Il risultato fu centrato ed è molto semplice accorgersene: l’animo di Ellie e Joel è così ben definito che è facile immaginare come si potrebbero comportare in situazioni non presenti nel gioco: sappiamo come sono fatti, come ragionano e come agiscono: li conosciamo al punto che potremmo addirittura proiettarli al di fuori dell’opera. La scrittura del primo episodio (e del suo DLC), molto americana (in senso letterario) nella sua asciuttezza anti-didascalica, consentì a Ellie e Joel di prendere vita, per così dire, ed essere riconosciuti fra i più memorabili personaggi della storia dei videogiochi.
Nel secondo episodio, è però evidente un cambio di stile in senso moralistico. La preoccupazione principale è che ciascun significato sia ripetuto un numero sufficiente di volte da far sì che non sia equivocabile da nessuno e i personaggi sono al servizio di questa finalità. The Last of Us Parte 2 è a tutti gli effetti una accorata lezione di politically correctness (il che non è da intendersi negativamente, dovremmo infatti sempre distinguere fra politically correct e, diciamo così, nazi-politically correct, così da scindere le ragioni dai dogmatici che talvolta le perorano, danneggiandole). Da subito è palese come vestire i panni di Abby materializzi l’intenzione di farti vestire i panni dell’altro, relativizzare le tue convinzioni e il tuo punto di vista al fine di mettere in discussione la percezione di chi sei educato a considerare il nemico. Vestire i panni dell’altro: empatia. L’empatia come tema e come ragione profonda del trattenersi dall’infierire nonostante la soggettiva e i suoi traumi (e al netto dell’ovvia disforia fra le uccisioni elargite durante il gameplay e il peso che assumono durante le sequenze cinematiche (e non solo) che coinvolgono i protagonisti).
La preoccupazione moralistica del titolo emerge anche dal gusto palese che Druckman e soci si sono presi nell’aver cura di pizzicare tutti i possibili nervi scoperti dei loro avversari politici alt-right (ebraismo, omosessualità, genitorialità omosessuale, transessualità… non c’è un tema che faccia infuriare i fasciobigotti che non sia mostrato, il che non rappresenta certo un problema per chi condivide in linea di massima la visione aperta e inclusiva della società sostenuta da Druckman ma lascia una strana sensazione di stare assistendo all’argomento di una disputa non connaturata al titolo).
Detto questo, alla scrittura del gioco (un gioco pur ricco di scene che fanno impressione) non riesce di costruire personaggi memorabili se non quando, forte del titolo precedente, ci fa vivere delle vere e proprie postille di quell’esperienza - come accade nei flashback che vedono coinvolti Ellie e Joel (che infatti risultano essere i momenti più convincenti dell’esperienza). Per quanto alcuni personaggi minori (nel senso di limitati a poche caratterizzazioni) risaltino in modo ben riconoscibile (come il padre di Abby o Tommy) lo stesso non può dirsi per la stessa Abby, Dina, Jesse, Owen, Mel, Yara, Lev… tutti personaggi privi di quel tratteggio caratteriale che rese memorabili Ellie e Joel nel primo episodio. Si ha la sensazione di un cast appiattito nel linguaggio e dotato di caratterizzazioni superficiali, appena funzionali al riconoscimento dei personaggi. Ribaltando il motto originario, è più complessa la storia di Abby di Abby stessa: persino un personaggio che controlliamo grossomodo per metà dell’esperienza risulta in realtà poco definito da un punto di vista psicologico: capiamo che è generosa, che ha una tresca, che è forzuta e che soffre di vertigini, ma non conosciamo davvero la sua personalità. Volete un esempio di una personalità che emerge indipendentemente dalla storia? Ellie, The Last of US, 2013, un personaggio indimenticabile ma, forse, anch’esso dimenticato.
Infatti dovremmo domandarci: se la Ellie adulta non fosse Ellie, cioè se non potesse contare sulle caratterizzazioni che l’hanno fatta amare a milioni di videogiocatori (escludiamo quindi anche i flashback), che cosa potremmo dire di lei?
Il punto del mio discorso è questo: una scena cruda, che sia violenta o si tratti di un attacco di panico vissuto nei panni della protagonista, non basta a definire una caratterizzazione profonda. L’impatto di quelle scene è simile a quello di un jump-scare, non è possibile non avere una reazione, non venire impressionati, ma senza una buona scrittura, che sappia far emergere il carattere dei personaggi attraverso un comportarsi che sia unico, non si scava davvero.
I dialoghi di The Last of Us Parte 2, ovvero il momento che è concesso ai personaggi per emergere, sono di una piattezza e di una genericità (dal teen drama stucchevole con cui il gioco inizia fino ai confronti inconcludenti fra Abby e Owen: tell, don’t show) che stride terribilmente con la loro durata e con quella del gioco nel suo complesso.
Infatti, il difetto più grande del titolo è proprio la sua lunghezza, che, sia chiaro, è una lunghezza relativa e non oggettiva. Non esiste un ottimo ideale in termini di ore che un videogioco deve durare, ma solo un rapporto (che ciascuno vivrà diversamente) fra ciò che il gioco ha da offrire e il tempo che ci mette a svolgerlo. In particolare, è grave quando un titolo si trascina, ripetendo i suoi contenuti, ben oltre il momento in cui il fruitore li ha fatti propri. Si ha qui la sensazione della ripetitività e della didascalia, tratti ben presenti in Tlou2. Le rime, le assonanze fra l'esperienza di Ellie e quella di Abby, volte all’empatia che dicevamo (l’altro ti somiglia, è come te e quindi merita di essere trattato come tu vorresti essere trattato), sono riproposte ben oltre il momento della loro comprensione (da cui la sensazione di stare assistendo alla lezione di un insegnante che vuole essere assolutamente sicuro che tutti abbiano capito - una preoccupazione che potrebbe anche essere lecita, ma non in un testo narrativo). L’idea di essere esautorati dall’autore, sia come giocatori che come interpreti, è poi acuita dal reiterato cambio di prospettiva e di panni vestiti (da Ellie a Abby e vicerversa) che porta a un progressivo disinteresse per la sorte di entrambe le protagoniste (a tal punto dobbiamo calarci nei panni altrui che non ne sentiamo più di nostri). Quello che il gioco ottiene, facendoci continuamente cambiare avatar (soluzione ogni volta anticlimatica) è un progressivo distacco dai personaggi e dalle loro vicende fino all’esito che un’opera narrativa (e non meta-narrativa, non stiamo parlando di The Stanely Parable, Tlou2 si prende sul serio) dovrebbe scongiurare: la perdita della sospensione dell’incredulità: si vedono fin troppo bene i fili che muovono le marionette (ci sono sempre i fili dietro le marionette, ma il bello del racconto è fartene dimenticare).
Allo stesso modo, risulta inspiegabile il finale dilatato che, davvero alla maniera di Kojima, fa di Tlou2 un titolo che sembra non finire mai per poi, qui invece alla maniera di Tlou1, non risolversi davvero. La vicenda delle due protagoniste non può dirsi narrativamente conclusa, tutto è lasciato in sospeso e si arriva con la sensazione di avere semplicemente portato a termine un episodio di un’opera che ancora non sa come darsi un finale, il che risulta una beffa a fronte della lunghezza relativa di cui sopra.
[qui si potrebbe obiettare: ma come, l’opera ha già un significato ben chiaro (e ce l’ha da un terzo della sua durata, a dire il vero) quindi è fatta e finita. Ma questo non è un saggio, è un’opera narrativa che non si esaurisce nell’esposizione di una tesi ma deve anche preoccuparsi di chiudere le storie che la costituiscono. Altrimenti, perché disturbarsi a imbastirle? E questo non è neanche Dark Souls, cui l’incompiutezza è costitutiva, è un gioco di intrecci]
E il gameplay? Evolve quello del predecessore, offrendo maggiori facoltà all’avatar (dallo strisciare allo schivare all’erba alta per lo stealth...), un’intelligenza artificiale raffinata e una generale maggiore fluidità pur dando sempre la chiara sensazione di stare giocando a un miglioramento dello stesso gioco. Il design delle aree allarga le pareti del corridoio e offre in qualche situazione una verticalità più pronunciata che in passato, ma in generale, purtroppo, anche il comparto ludico soffre e partecipa della lunghezza del titolo, non riuscendo a scampare a una certa ripetitività delle situazioni (l’alternanza infetti/umani, come avversari, mostra presto il fianco al deja vu e anche la varietà delle aree e delle arene non basta a scongiurare una certa ripetitività nella seconda parte del gioco che soffre anche del fatto che il giocatore abbia già sulle spalle l’esperienza del primo episodio, del quale per altro Tlou2 ripropone e anzi espande alcune soluzioni non proprio brillanti, come l’abuso delle casseforti, dello pseudo-jumpscare affacciandosi da un cunicolo o una strettoia, del deus ex machina dei salvataggi all’ultimo secondo, dei foglietti di memorie lasciati da fin troppi cadaveri, dei collezionabili insulsi e dei puzzle ambientali per proseguire sempre uguali a se stessi; soluzioni che finiscono per minare il coinvolgimento nell’azione.
Più in generale, e più a fondo, qui dovremmo domandarci se la componente survival giovi o meno a The Last of Us, siccome l'allargamento del corridoio di Parte 2 implica molto più tempo passato a perlustrare le aree ripulite dai nemici per la raccolta di risorse. Realistico, dato il contesto post apocalittico, ma tedioso alla lunga e fondamentalmente in contrasto con la densità story-driven che il titolo vorrebbe darsi.
Al netto dei suoi difetti, comunque, The Last of Us Parte 2 rimane un esempio potente di argomentazione attraverso il videogioco. L’immersione che solo l’interazione può consentire e l’uso di una rappresentazione eccezionalmente espressiva diventa lo strumento per la comprensione dell’orrore che la violenza è. I nemici infetti, almeno i runner, emettono grida ancora umane e i nemici umani, anche quelli generici, si chiamano per nome ed esprimono un dolore che diventa il nostro quando li eliminiamo. Abby impara che l’uccisione dell’assassino di suo padre è inutile e, in ultimo e cosa più importante, è stata una crudeltà. Ellie realizza che uccidere Abby, che ha ucciso Joel (la sua figura paterna) non servirebbe a scacciare i suoi fantasmi. Nell’inflizione del dolore, non risiede altro che che l’esacerbarsi del proprio e la vendetta non basta a costituire uno scopo.
(questo articolo è il testo del video qui sopra, che ho pubblicato su WesaChannel il 18 agosto 2020)