L’accessibilità nei videogiochi - intesa come la difficoltà di superamento delle barriere (di qualunque tipo) poste all’ingresso dell’opera - è un tema di cui ho sentito parlare spesso durante la mia vita da giocatore e che ha attraversato fasi molto diverse tra loro.
Avendo iniziato a videogiocare durante la quinta generazione di console con la prima Playstation, ricordo bene la difficoltà medio/alta dei giochi di quel periodo (pensiamo a Oddworld, Tenchu e Tomb Raider III), le ragioni dietro a quel livello di sfida erano derivanti da molti fattori: in primis dalla volontà degli sviluppatori ma anche dall’inesperienza del pubblico verso determinate esperienze e generi; non c’è esempio migliore per evidenziare questo aspetto del Junction System di Final Fantasy VIII, facilmente rompibile ma troppo alieno perché i videogiocatori occidentali riuscissero a sfruttarlo efficacemente per rendere il titolo una passeggiata.
Questa tendenza si invertì negli anni della sesta e settimana generazione, durante i quali, l’impegno necessario per vedere i titoli di coda di un videogioco mediamente si abbassò, fino ad arrivare - intorno al 2010 - al suo punto più basso. Questa tendenza era, secondo me, dovuta alla voglia dell’industria di sperimentare con titoli più narrativi (massimi esponenti di questa corrente furono software house come Quantic Dream e Telltale Games) e alla necessità di abbassare il livello di sfida per portare a bordo delle proprie IP nuovi consumatori attirati dalla popolarità crescente del medium; senza contare che quelli erano gli anni in cui tutti i principali attori puntarono sulla tecnologia dei sensori di movimento, il cui obiettivo era eliminazione dell’uso di un controller per poter interagire con i propri avatar virtuali, premiando l’immersione e l’immediatezza a scapito della complessità e della precisione dei comandi.
I semi per la successiva fase - nella quale, secondo me, ci troviamo ancora oggi - sono stati piantati dallo sviluppo della scena indie durante la rinascita del mercato Pc e dall’uscita di alcuni titoli controcorrente, primi fra tutti i capostipiti della serie Souls, i quali portarono un ventata di aria fresca all’interno del panorama videoludico nel momento di massima conformità, dimostrando che il mercato era pieno di giocatori pronti a cimentarsi con sfide più impegnative.
Attualmente, grazie solo alla dimensione del mercato, si è raggiunto un buon equilibrio e l’offerta in termini di livelli di sfida è senza precedenti. Adesso la direzione intrapresa dalle case di sviluppo non mi sembrerebbe più focalizzata sul miglioramento delle opzioni di difficoltà, bensì sulla creazione e sull’approfondimento di impostazioni sempre più variegate per l’accessibilità in termini di deficit visivi, motori e cognitivi; per elencarne alcuni: rimappatura parziale o completa dei comandi, filtri per daltonici, testi per dislessici, possibilità di saltare quick-time events, inclusione dei sottotitoli in diverse lingue, dimensioni variabili per i testi a schermo e molto altro.
Fra i tripla A è sempre più difficile trovare un titolo a cui mancano più della metà delle opzioni sopracitate e gli indie non sono da meno, mi sembra invece che le software house orientali siano meno attente a questo aspetto, includendo mediamente meno opzioni di accessibilità rispetto alle controparti occidentali.
Il canale Youtube di Game’s Maker Tool Kit ha riassunto bene la questione
In virtù di quanto detto prima, attualmente, anche il giocatore meno capace può scegliere tra centinaia, se non migliaia, di titoli pensati per il suo livello di abilità oppure semplificabili con opzioni dedicate; continuano però a rimanergli preclusi tutti quei videogiochi con un livello di sfida medio/alta, dove la difficoltà non è modificabile. Nonostante credo siano una minoranza rispetto a tutti gli altri prodotti più accessibili, in quella minoranza, vivono videogame considerati diffusamente non solo dei capolavori, ma anche rivoluzionatori del loro genere di appartenenza e, più raramente, dell’intero medium videoludico.
Partendo da questo presupposto mi chiedo: “Ci si dovrebbe accontentare dell’equilibrio raggiunto oppure si potrebbe fare di meglio?”
L’obiezione più naturale a questo pensiero è: l’artista dovrebbe sentirsi libero di fare quello che vuole e non dovrebbe essere osteggiato dal lavorare su qualcosa di non accessibile; se lo si costringesse a modificare la sua creazione in favore del pubblico l’opera potrebbe venir compromessa e perdere una parte del suo valore e della sua unicità.
Questa critica è sacrosanta e non vorrei mai che un progetto interessante venisse snaturato per renderlo più approcciabile, però penso anche che i videogiochi siano un mezzo espressivo unico, capaci di mettere a disposizione strumenti innovativi che, se usati intelligentemente, permetterebbero di smussare il problema dell’accessibilità senza svilire l’opera.
Una precisazione importante da fare prima di proseguire è che ci sono aspetti sui quali non è possibile intervenire: sarà sempre richiesta un’abilità minima di utilizzo degli strumenti necessari al prodotto per srotolarsi, come ad esempio riuscire a muoversi e contemporaneamente a guardarsi intorno in un titolo in prima persona. Quello su cui penso sia possibile agire sia “accorciare“ la differenza tra l’abilità del giocatore e quella richiesta dal videogioco per proseguire.
Prendiamo in considerazione la serie allargata dei Souls, giochi classificabili sicuramente come impegnativi, che richiedono sia una certa pianificazione tattica, sia una buona velocità di reazione e tempismo nell’impartire gli input al proprio alter ego virtuale. L’accessibilità di questo tipo di giochi è stata oggetto di numerosissimi articoli, comparsi in tutte le principali testate di settore e non, in cui si argomenta di quanto l’introduzione di una Easy Mode (intesa come applicare un aumento percentuale dei parametri del giocatore, rendere i nemici più deboli e meno numerosi oppure aggiungere feature miste come eliminare a comando del contenuto troppo ostico1) possa essere una panacea contro l’impegnativo livello di difficoltà di questi titoli.
Una modalità del genere è un’idea allettante perché universale, applicabile facilmente a qualunque contesto impegnativo ma, come nella maggior parte dei casi, una soluzione semplice non è quasi mai la più efficace, soprattutto considerando che l’accessibilità è una caratteristica strettamente legata al singolo gioco, alle sue meccaniche ed unicità. Intervenire in questo modo altererebbe molto probabilmente la natura del prodotto, allontanandolo dall’idea originale che sarebbe arrivata sugli scaffali.
La mia principale critica verso l’introduzione di un livello di sfida più facile in una serie come quella dei Souls - e di tanti altri prodotti simili - è che l’assenza di un selettore di difficoltà all’inizio dell’avventura implica una specifica scelta da parte degli autori: quella di volere che ogni giocatore sia alle prese con lo stesso mondo di gioco.
Da questa decisione di design ne conseguono altre a cascata come uno studio più raffinato del bilanciamento di oggetti e classi (facilitato dalla presenza di una sola difficoltà), posizionamento nonché parametrizzazione dei nemici e la possibilità di imprimere all’opera una certa atmosfera - immaginatevi il cambio di mood nell’attraversare in easy mode Anor Londo, dove un nemico per uccidervi dovrebbe attaccarvi una decina di volte, oppure che le frecce scoccate dai temibili arcieri appostati non fossero in grado di farvi cadere dal tetto mentre cercate disperatamente di raggiungere un luogo di riposo.
Contrariamente a quanto espresso ogni tanto su internet2, avere una simile opzione influisce eccome sull’economia di un progetto, in quanto, anche non selezionando la difficoltà più semplice e optando per quella consigliata (o quella più difficile) si entrerebbe comunque in un mondo di gioco diverso da quello in cui ci si sarebbe trovati se quella selezione fosse mancata del tutto.
Una soluzione diversa e, dal mio punto di vista, più amalgamabile con il design dei Souls consisterebbe nell’agire all’interno dei vincoli e della struttura già creata dall’assenza di un selettore di difficoltà. Un possibile esempio potrebbe essere introdurre nuove classi: come esiste già una classe “Discriminato” (pensata per aumentare la sfida) potrebbe esistere una classe “Videogame Journalist” che al contrario potrebbe fornire alcuni bonus per facilitare il giocatore senza però intaccare gli altri aspetti extra-personaggio citati prima.
Nonostante sia solo un meme ironico mi ha fornito un primo spunto per ragionare su questi temi.
La classe in esame potrebbe cominciare ad un livello più alto delle altre, avere finestre di parry più ampie, bonus alla ricarica della stamina, invincibility frames meno punitivi, un jolly ricaricabile ai falò per sfuggire una volta alla morte oppure potrebbe essere equipaggiata con oggetti particolari non ottenibili nel mondo di gioco (in modo da non squilibrare le build delle altre classi). Fromsoftware ha già implementato gli ultimi due punti anche in Sekiro, eviterò di esplicitare l’ultima feature per non fare spoiler ma chiunque abbia iniziato un NG+ sa di cosa parlo (per tutti gli altri non spoilerofobici rimando all’articolo sul particolare oggetto3)
Per giustificare ulteriormente questa classe si potrebbero disabilitare i trofei, bloccare tutti i finali canonici e sostituirli con un joke-ending o rendere inaccessibili certe aree - extra e non - cosicché, una volta completato il gioco in questo modo, il giocatore potrebbe essere invogliato a fare una nuova partita, magari selezionando una classe non facilitata per avere un’esperienza più canonica. Lentamente, grazie all’esperienza maturata, potrebbe anche superare la propria diffidenza e continuare a cimentarsi in titoli più impegnativi rispetto a quelli giocati abitualmente.
La differenza tra una easy mode e una classe del genere si trova nel fatto che, nel primo caso, il cambiamento coinvolge l’intero mondo di gioco, relegando al giocatore un ruolo passivo da cui riuscirà più difficilmente ad emanciparsi e rafforzando il suo bisogno di una modalità simile in ogni gioco in cui vorrà cimentarsi.
Per tutti i lettori che si sentissero turbati da questa mia ipotesi vorrei rispondere che nei Souls esiste già una “easy mode”: le invocazioni.
Questo meccanismo però non credo sia ideale come aiuto: per prima cosa sono poco affidabili e discontinue in quanto soggette all’attività di altri giocatori nei server ma, cosa ben peggiore, rende il giocatore un soggetto passivo che rischia di essere messo in disparte da un giocatore più bravo, il quale, sarà incentivato nell’eliminare gran parte delle minacce diminuendo i pericoli per l’invocante, precludendolo dalle sfide necessarie al suo miglioramento e rendendolo sempre più dipendente da questo meccanismo per procedere nelle fasi più avanzate dell’avventura.
Detto questo, non penso sia una feature da screditare in quanto, la critica fatta sopra, si applica solo ad un caso molto specifico mentre le invasioni, le partite condivise tra amici ed estranei, il PvP e le Covenant aggiungono valore e varietà all’opera, portando sicuramente più benefici che svantaggi.
Al di fuori dei Souls, un altro caso di difficoltà gestita intelligentemente l’ho trovato in un videogame a cui ho giocato di recente: Below In questo titolo esiste la possibilità di affrontate l’avventura in “Modalità esplorativa” eliminando la parte survival del titolo - la quale richiede tempo più che abilità da parte del giocatore -, facilitando alcune azioni (come quelle di cura e riposo) ed eliminando le situazioni di one-hit death. Insomma, lo sforzo necessario a farsi strada nelle viscere della terra è ancora il medesimo, il giocatore si ritroverà negli stessi luoghi inospitali e sarà circondato da nemici non meno numerosi e non meno letali rispetto alla modalità classica; purtroppo l’atmosfera ne risulta indebolita, morire e riprovare è reso più semplice quindi il giocatore non sarà ugualmente spronato a fare del suo meglio per sopravvivere il più a lungo possibile, in quanto, ritornare alla propria tomba è veloce e conveniente eliminata la fase iniziale di accumulo di provviste.
Un secondo esempio, ugualmente efficace, si può trovare in Metal Gear Solid V: Phantom Pain in cui, il giocatore, non ha la facoltà di scegliere fra diversi livelli di difficoltà ma ha la possibilità di indossare un copricapo (un dettaglio molto importante da evidenziare è che questo cappello sia a forma di gallina) con l’abilità di annullare i primi tre avvistamenti dei nemici al prezzo di abbassare il punteggio di fine missione, precludendo di ottenere la valutazione massima.
Tiriamo le somme: la spinta per una maggiore inclusività è possibile ma bisogna stare molto attenti a non cedere agli impulsi più istintivi e pretendere che ogni gioco impegnativo venga appiattito da una modalità che cambi la visione autoriale del team, non escludendo l’eventualità in cui sia impossibile coniugare una maggiore accessibilità con l’obiettivo dell’opera.
https://www.rockpapershotgun.com/assassins-creed-origins-tourism-difficulty
https://kotaku.com/an-easy-mode-has-never-ruined-a-game-1833757865
https://sekiroshadowsdietwice.wiki.fextralife.com/Kuro's+Charm