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Iniziò tutto con un sogno - ricordi? - uno di sette. Sulle rive dell’oceano, nella terra che si incurvava come fosse un sorriso, cresceva un’erba XI secolo verde-brunastra, così buia da scurire di ombre persino le onde del pelago. Le felci danzavano sulle note degli uccelli in volo e, oltre il fiordo, una collina verdeggiante attendeva i groenlandesi. L’intrepido esploratore islandese Thorfinn Karlsefni1 guardò gli Skræling2 che turbinavano i bastoni. Si volse verso i suoi uomini con un punto interrogativo sul volto: ma chi so' sti nani? A loro volta, gli Skræling di Vineland la Buona guardarono esterrefatti gli stranieri venuti dal Nord nel Nord: gigantessi, pheega. Gli sguardi sono convenevoli che rispondono alla nostra natura più animale; quindi, i bassi uomini Skræling guardarono le alte donne groenlandesi (rigide e impettite, dai capelli prodigio dorato) e pensarono “ma che ultrapatonze sono?”; anche le donne Skræling guardarono gli uomini groenlandesi (le braccia grosse come gli orsi di un lontano Interregno, il volto severo imperlato di sudore) e pensarono alle banane giganti3. Il vento soffiava oltre l’oceano, accompagnato dal ronzio delle api sugli iris violacei. In quel momento l’erba sembrò arrestare la sua crescita e il vento gelare la terra del sogno nordico: eri davanti a uno dei primi incontri tra nativi e groenlandesi, immobile di fronte a quell’immagine fungo nel tuo cranio XXI secolo. Non capivi, e ne volevi di più. Ma le saghe nordiche (Eirik il Rosso e il tuo fact-cheking), così come i sogni, sono piene di menzogne. Ed è un bene, sennò non staremmo neanche ad ascoltarle.
La mente addormentata allora si abbandona al meraviglioso. Se fossi sveglio sapresti quanto è sottile il confine che divide il wonderland dal rabbit hole.
I sogni non li puoi controllare, e nel percorrere la storia dei nativi americani ti imbatti nel primo romanzo di George Saunders: una slinguazzata a Lincoln (nel sogno ha le sembianze di Daniel Day-Lewis) attraverso la morte del suo innocentissimo figlio Willie: uno dei più grandi esperimenti del postmodernismo americano («Un libro che rimette in discussione la nostra idea di romanzo», dice il The Washington Post), ovvero “Lincoln nel Bardo" (2017).
Dice Lincoln, con le parole di Saunders, «Provi così tanto amore per i tuoi bambini, tanta trepidazione per tutto il bello che conosceranno nella vita, tanto affetto per quell’insieme di caratteristiche che ciascuno manifesta in maniera così unica [...] e poi il tuo bambino non c’è più! Te lo portano via! Ti stupisci che un oltraggio così violento sia avvenuto in quello che prima sembrava un mondo buono»4, e nel sogno il latte alle ginocchia ti provoca nella realtà uno spasmo ipnico. Dove ti porterà questo sogno, solo a cadere da un letto in un pomeriggio di mezz’estate?
Nello stesso anno in cui il “mondo buono” (la versione saundersiana del mondo bello di Sally Rooney) si portava via il povero Willie (febbre tifoidea, brutta bestia), il Sioux Uprising, più conosciuto come Guerra di Piccolo Corvo, mieteva centinaia di vittime dakota. Questa guerra, passata in secondo piano rispetto alla Guerra di Secessione, non fu il primo incontro di Lincoln con i nativi. Trent’anni prima, nel 1832, quando aveva solo 23 anni, Lincoln prestò servizio come volontario nella milizia dell'Illinois durante la Black Hawk War, un conflitto tra Stati Uniti e nativi americani, guidato dal leader dei Sauk, un certo Ma-ka-tai-me-she-kia-kiak, più comunemente noto come Black Hawk. Sul fiero suolo italico giganteggia quale Falco Nero.
Il sogno sarebbe potuto terminare qui, tra le lande nude e desiderate del Nord America e l’odore della polvere da sparo mista al sangue fresco dei nativi. Ma la calura di quella giornata di mezz’estate aveva deciso di infilarsi tra le membra del sogno e spingersi come un sussurro all’orecchio: «la conclusione alla quale sono giunto, e spero di non essere l’unico, spero che ci siamo giunti tutti… fa caldo, un caldo maiale, un caldo porco, un caldo fottuto o un caldo fotonico»5, e questo caldo è una mazzata sulle gengive: il condizionatore acceso ti mantiene vivo dai 40 gradi esterni, figli del buco dell’ozono che hai causato con la tua bella dose di CO2, dose a sua volta figlia del condizionatore acceso. Oscilli tra questo senso di colpa (un Miðgarðsormr che si morde la coda) e la voglia di ribellarti al sudore interscrotale smettendo per sempre di vivere con dignità; un’altalena di desideri, indecisa tra l’ibernazione e il cosplay di Ralskol’nikov. Che sia sogno o realtà, Roma d’estate è un profluvio di odori nauseabondi, un obitorio dove stazionano studenti e lavoratori: negli interstizi delle serrande arrugginite – la casa di nonna - muore la speranza di una piena automazione.
Il caldo ti ricorda che la Storia dell’uomo è un turbinare di bastoni. E in questo castigo, tanto vale uccidere anche noi la vecchia usuraia.
Ti svegli.
La nausea di un risveglio che avresti voluto posticipare ti rende dimentico dei tuoi precedenti desideri (ovvero, uccidersi/uccidere), ma si accompagna, quale febbre, a una ricerca che è insensata: approfondire la guerra di Black Hawk. Il senso di torpore, lo stomaco ingastrito, gli occhi semichiusi, rappresentano le dita autonome che digitano su Safari. E l’errore, madornale, è non aver atteso la lucidità per instradare il correttore automatico (impostato sulla lingua “italiano”). Black Hawk, sul tuo Safari, si trasforma quindi in Falco Nero, proiettandoti l’immagine di un trentacinquenne vestito di scuro, magro, gli occhiali che riflettono uno schermo che non puoi vedere. “Un canale dedicato ai videogiochi. Ne parlo a 360°... senza troppi peli su…” afferma la frase in alto sotto l’icona stilizzata di un volatile. La voglia-di-sparare-a-qualcuno scrive “Migliori FPS della storia dell’umanità”, la necessità-di-premere-un-grilletto-virtuale seleziona il primo video consigliato, la voglia-di-uccidere-qualcuno si impenna nell’attesa che la pubblicità ti liberi, la smania-di-imbracciare-un’arma ti ferma al primo titolo annunciato: un certo Dishonored. Sei già su Steam, dal venditore al consumatore.
Mentre attendi con impazienza, pensi a quanto sei fortunato: ti è stata data la possibilità di sfogare l’aggressività – quel bastone turbinante - attraverso una catarsi videoludica. I groenlandesi non potevano certo dirsi così fortunati. Per qualche minuto sei felice, poi avvii il gioco.
Che non fosse un FPS già lo sapevi, una consapevolezza nascosta in una delle mille strettoie del tuo sogno («i casi umani»), in quei rimasugli di carne rappresa che non scosti neanche più («un ragazzo che “ipervaluta” le proprie competenze quando, in realtà, soffre di alcune deficienze gravi»), tu lo sapevi. Ma il 91 Metascore, quando ti coglie debole, ti induce a sperare in un miracolo. Di divino qui trovi solo la richiesta d'una pazienza cristiana, la stessa che dovrai professare davanti a un’opera che percepisci come stealth («un analfabeta dell’analisi tale da non riuscire a comprendere quale sia il vero core gameplay di uno shooter»6), e che in quanto tale ti chiederà tutto ciò da cui rifuggivi: la rassegnata attesa di uno spazio d’azione in cui infilarti; la stessa impotenza che provi bloccato nel traffico di Roma, quarantuno gradi, la puzza di morte nell’aridità di una città a metà tra Beksiński e Béla Tarr. Lo spazio fuori è il rispecchiamento dello spazio dentro, nello schermo, ciò da cui volevi fuggire. La verità è che potresti scagliare la rabbia sul capo Sauk (ha detto una cosa sbagliata, anche se forse voleva criticare il nostro rinchiudere opere all’interno di categorie prestabilite (proiezione della nostra necessità di dare un ordine a quello che esperiamo)), potresti mettere via Dishonored e giocare a un Call of Duty, potresti leggere Delitto e Castigo, potresti tentare l’acriticità, per una volta sola potresti provare a spegnere quella voce grillinica… No, la verità è che ora lo devi fare, devi giocarti sto 9 Everyeye (“un masterpiece da non lasciarsi assolutamente scappare7”), sto 9.5 IGN (9.5 anche se “non è nemmeno un capolavoro assoluto in grado di superare ogni aspettativa8”), sto 9.1 Multiplayer (9.1 anche se “una volta completato il gioco si nota l'assenza di modalità extra9”), devi giocarlo perché per te il fatto che non abbia extra e che sia “completabile in sole otto ore, una durata media al giorno d’oggi, ma corta per un’opera in grado di offrire così tanto” è più un pregio che un difetto, perché tu non ce la puoi fare a spegnere il cervello e giocare uno sparatutto alla COD, perché tu vuoi la ciccia, la vuoi anche se hai trentasette gradi di temperatura corporea e le mosche sudanti rosicchiano il cibo rimasto incrostato sui piatti che non hai avuto la forza di lavare. Tu devi giocarlo.
.Il problema è che dopo qualche ora di gioco i voti che hai letto turbinano nella tua testa, dapprima come i punti interrogativi di Thorfinn Karlsefni davanti agli Skræling, e poi, rassegnati, come il dolore di un Lincoln di fronte al corpo morto di suo figlio dodicenne. Ti chiedi perché il protagonista non sia minimamente caratterizzato (come se il POV in prima persona presupponesse un movimento transitorio nel videogiocatore, un'arbitraria assegnazione della sua personalità a quella dell'avatar che sta muovendo); perché a Dunwall la peste diventi parodia: sciami di topi attaccano il primo malcapitato che si trova sotto i loro rosicchianti dentini, e il videogiocatore, in questa approssimazione, non riesce a percepire che cominciano «in ogni quartiere a farsi frequenti le malattie, le morti con accedenti strani, di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni, morti per lo più celeri, violente, repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia10», la mascherata della Morte Rossa guarda allo specchio la sua figura ormai impallidita e non c'è nessun Settimo sigillo per il nobile cavaliere svedese che torna nella sua devastata terra natia; è un Conte di Montecristo decorato con un’ambientazione un po’ steampunk e un po’ distopica, un'opera dove manca una narrazione coesa e plausibile, ingenuamente sostituita da un banale sistema di moralità. Perché 9.1?
Nell'agone intersoggettivo per l'attribuzione del significato, ti direbbero che non è il tuo genere, e che sei troppo snob (citi Manzoni, per Dio!)
Spegni il PC.
Forse era più facile appicciare un Battlefield di quelli vecchi - a casa di tua nonna, l'hotspot da telefono - forse era meglio non avere pretese, tornare nella pozza di sudore che sul letto ti aspetta, dormire. Quando le opere d’arte non ti fanno sognare, che senso ha rimanere svegli ad ascoltarle?
*Copertina generata con AI
“Thorfinn Karlsefni, (born 980, Iceland—died after 1007), Icelandic-born Scandinavian leader of an early colonizing expedition to North America. His travels were recounted in the Saga of Erik and the Tale of the Greenlanders." The Editors of Encyclopaedia Britannica. (1998, 20 luglio). Thorfinn Karlsefni | Viking leader, Greenland colonist. Encyclopedia Britannica. https://www.britannica.com/biography/Thorfinn-Karlsefni
An Inuit or other indigenous inhabitant of Greenland or Vinland (on the NE coast of North America) at the time of early Norse settlement", Skraeling. (s.d.). Oxford Reference. https://www.oxfordreference.com/display/10.1093/oi/authority.20110803100510378;jsessionid=7E10DB79C8CCEA121D7A6AB67B2D8363
Elio E Le Storie Tese. (2022). Banane giganti [Video]. YouTube.
Saunders, G. (2017). Lincoln nel Bardo, Feltrinelli.
WesaChannel. (2017). "Il mio video più IMPORTANTE". [Video]. YouTube.
Wright, L. (2023, 10 gennaio). FALCONERO e la credibilità. Facebook. https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=pfbid0DZJDNzpT8kUbKLgfJXrpdhtSu1pMevu6escwvpkuBkj2xqwNY4z39D1VmPfX2nGgl&id=100064575704100
Manzoni, A. (1999). I Promessi Sposi. Cap. XXI, Mondadori (IT)