Parlare di NieR: Automata può risultare molto complicato, addirittura un'operazione sgradevole su certi fronti. I suoi grandi pregi e i suoi enormi difetti coesistono assieme in un connubio molto particolare, che se da una parte l'accomunano in questo senso a molte altre opere, dall'altra rappresentano quasi la sublimazione della presenza contemporanea di virtù e vizi in un singolo lavoro. La sensazione che si ha quando si gioca ad Automata e si tenta di giudicarlo mi ricorda quella provata guardando molti film e serie tv giapponesi, o leggendo molti fumetti – figli della medesima cultura e delle stesse regole commerciali a cui appartiene Automata. Spesso, guardando o leggendo alcuni tra i prodotti più validi della cinematografia o dell’editori nipponica, si ha comunque un senso di superfluità1: è come se nel raccontare storie di interesse assoluto, veicolate con metodi e attraverso mezzi spesso molto innovativi, buona parte delle opere che appartengono alla cultura popolare nipponica eccedano in qualche misura i limiti della necessità, anche quando le intenzioni sono le migliori. La sensazione, o forse sarebbe meglio dire la paura che ho (ma immagino che questo sia molto personale) è che ciò possa compromettere il valore per così dire letterario dell’opera. Ovviamente non mancano le mosche bianche: Ashita no Jo, per dirne uno, è un racconto quasi privo di inciampi a cui forse un giorno verrà riconosciuta, anche al di fuori del suo medium, una valenza letteraria a tutto tondo; e il manga di Nausicaä della valle del Vento, così come la sua controparte animata, sono opere di indubbio valore che non sfigurano al cospetto dei cosiddetti grandi di letteratura o cinema live action2; ma molto spesso è come se siano gli autori stessi a essere consci che il proprio lavoro possieda almeno una parte di superficialità, un residuo che potrebbe essere reciso senza intaccare il valore letterario dell'opera, anzi.
Il problema è che approcciare opere così “schizofreniche” – in quanto così interessanti e al tempo stesso tanto difettose – può diventare complicato. La ragione per cui questi casi meritano però grande attenzione mi è sempre sembrata la loro enorme ambizione: con grande naturalezza esse hanno talvolta la grandissima ambizione di raccontare tutto, di voler provare a spiegare tutto, e affrontano i temi più complicati e universali: dalla vita alla morte, dalla nostra posizione nel mondo a chi siamo e dove andiamo, molte opere affrontano queste tematiche con uno sguardo ingenuo (e suo l’aggettivo in senso positivo) e con un'ambizione senza pari.
Il caso che di recente più mi ha fatto pensare a questo bipolarismo di molte opere provenienti dalla cultura nipponica è stato proprio quello di NieR: Automata, che porta all'estremo questo concetto e rende difficile capire come destreggiarsi tra i suoi pregi e le sue mancanze. Ma analizzando la quantità di temi affrontati, le innumerevoli chiavi di lettura e le sue grandi ambizioni narrative, ci si rende conto che Automata è un videogioco di interesse assoluto, al quale si possono (forse) perdonare alcune delle sue velleità commerciali. Attraverso il racconto di un androide dai pochi sentimenti e dalle vesti succinte, sempre altalenando un citazionismo spicciolo a grandi ambizioni letterarie, il videogioco di Yoko Taro è un'opera tanto imprescindibile quanto criticabile, e forse proprio per questo merita più attenzione di tante altre.
DO ANDROIDS WEAR SKIMPY SKIRTS?
In NieR: Automata ci ritroviamo a vestire i panni (pochi, a dire il vero) dell'androide 2B, chiamata a svolgere funzioni militari accompagnata dal fedele 9S, su un pianeta in cui vigono atmosfere crepuscolari, dove la fine del mondo non è più un racconto lontano e vacuo, ipotetico, e su cui risuonano ancora gli echi di un'umanità sulla quale sembra essere calato il sipario. Se, però, i nomi dei protagonisti principali mettono subito in chiaro la vocazione di Yoko Taro di esprimere concetti molto elaborati tramite giochi di parole semplici ma apprezzabili (2B si legge come il “to be” pronunciato da Amleto, mentre 9S è da intendere come il tedesco “nein es”, che rimanda al “not to be”), è quando Taro si abbandona al citazionismo di bassa lega che dimostra di saper essere persino più discinto della sua amata protagonista: i vari personaggi di Engels, Pascal, Jean-Paul e via dicendo sono tutti modi per strizzare l'occhiolino al giocatore e per rendere il più esplicito possibile una vocazione letteraria colta, verso la quale il suo autore prova una preoccupazione quasi vitale, come se mettere in mostra quello che Taro voglia richiamare, omaggiare, rielaborare, sia più importante del creare un'opera unica con un messaggio di valore. Il gusto che si genera tramite il citazionismo di Automata e il bisogno quasi contorto del suo autore di essere così esplicito è un gusto che dire post-moderno sarebbe un eufemismo; si crea piuttosto la sensazione del kitsch, o peggio ancora del posticcio, del bisogno di mettersi in mostra più del necessario – in modo superfluo appunto –proprio come 2B si aggira gratuitamente in tacchi e gonnellina tra il deserto e le macerie.
2B, L'ANDROIDE DELLA MEMORIA
E allora dove sta la grandezza di NieR: Automata? Qual è il quid di un gioco che si preoccupa costantemente di catturare l'attenzione del giocatore utilizzando qualsiasi escamotage per riuscire nell’intento? Se siamo in grado di andare oltre alcune delle facilonerie presentate da Taro3 saremo in grado di vedere un'opera unica, che sa toccare e sviluppare temi universali e che hanno a che fare intimamente con chi siamo come individui e come specie, quale sia la nostra posizione nel mondo e come possiamo interpretare i nostri ricordi, lo ieri, l'oggi e il domani.
Cullati da una colonna sonora che riverbera come una nenia tombale, l'ultimo rintocco di campana dell'umanità suona delegando a terzi le azioni che conseguono dalle proprie scelte: gli YoRHa, unità da combattimento composta da androidi, hanno il compito di sconfiggere le biomacchine e porre fine a una guerra che ha segnato l'ecatombe dell'umanità così come la conosciamo. Di questa umanità, però, rimane ancora una traccia, un ricordo che si effonde nell’ambiente circostante sotto forma delle cose che la specie ha lasciato di sé: architetture, testi, dati. La tragica scoperta del giocatore, quando realizza che di quell'umanità non resta più nulla e che 2B sta combattendo una guerra quasi inutile, delegata per conto di entità lontane e inesistenti, pone al centro il ruolo della memoria, e in particolare della memoria umana: cosa saremo, quando non ci saremo più? Che cosa si potrà dire di noi, e soprattutto esisterà qualcuno (o qualcosa) che lo potrà dire? Noi, come specie, valiamo così tanto da meritare un posto, un ricordo oltre i confini del nostro tempo? Non meritiamo piuttosto di sparire a tempo debito, di chiudere la parentesi della storia umana senza strascichi, senza residui e senza sforzo? Il tarlo che entra nella testa del giocatore, quando si ritrova ad affrontare un mondo muto, spoglio e minimale dove le uniche creature familiari sono piante e animali, è quello dell'ossessione: siamo così ossessionati da noi stessi e dal voler essere ricordati che non ci rendiamo conto che inevitabilmente arriverà un momento in cui tutto sarà dimenticato. Presto o tardi, in un modo o nell'altro; ma quel giorno arriverà. Sarebbe piuttosto da chiedersi cosa vogliamo ricordare e per quanto tempo, e che valore assegnare alla memoria stessa. La patologia di cui soffre l'umanità, e da cui (forse) Yoko Taro prova a mondarci è quella di Funes, l'uomo della memoria creato da Borges, che tutto vive e tutto ricorda. Impossibilitato a dimenticare alcunché, condannato più dalla sua condizione psichica che non da quella fisica (Funes perde l'uso delle gambe) – una sorta di messo della Storia che avanza – ogni cosa appare a Funes come eterna, indispensabile e indimenticabile, e diventa impossibile allora spogliare di senso le cose:
Ci lasciano intravedere o dedurre il mondo vertiginoso di Funes. Questi […] era quasi incapace di idee generali […]; gli dava fastidio che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). La sua stessa faccia nello specchio, le sue stesse mani lo sorprendevano ogni volta. […] Era lo spettatore solitario e lucido di un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso.
(J.L. Borges, da Funes, l’uomo della memoria, in Finzioni)
Portavoce di una Storia che per registrare tutto è costretta a porsi al di fuori di essa, la patologia di cui soffre Funes, dice Borges, gli rende impossibile pensare, perché la memoria prende il sopravvento su ogni velleità di pensiero: pensare significa “dimenticare differenze, significa generalizzare, astrarre”. Tagliare, operare scelte. A soffrire di questa malattia, in Automata, è come se fosse tutta l'umanità, chiamata in causa perché non riesce più a pensare (o magari non vuole), preoccupata piuttosto a registrarsi e farsi ricordare. Non è un caso se questo interrogativo su come interpretare la “parentesi umana” rimanga lì, posto senza una vera soluzione e ben rappresentato dalla differenza tra i due protagonisti del racconto: se 9S è molto più riflessivo e si pone domande su se stesso e sul passato, 2B è quasi sempre una mera esecutrice di azioni che provengono da qualcun altro, senza neanche chiedersi chi sia questo qualcun altro. Una differenziazione che rimanda anche ai modi in cui i due rappresentano il ruolo della memoria: se per 2B sembra in un primo momento fondamentale restare sempre agganciati alle memorie, ai dati, 9S è invece associato all’idea di abbandonare il ricordo asfissiante di tutto ciò che fu e operare una sorta di tabula rasa.
Ed è proprio il tema della tabula rasa che sembra tenere banco in NieR: Automata: persino le biomacchine, grazie a Adam e Eve, ormai resesi coscienti hanno capito come fosse il caso di tagliare i ponti, ribellarsi al padre padrone (sia esso rappresentato dai nostri antenati, una divinità superiore o dal nostro passato) e dimenticarlo, per vivere un futuro autonomo, con tutto ciò che ne consegue. Adam e Eve, progenitori di una nuova stirpe, sono per così dire i primi a rendersi conto che si dovrebbe ripartire da zero; persino i loro nomi, pur appartenendo a una stirpe molto distante da quella umana e anzi, addirittura in conflitto con essa, ci suonano familiari e consoni, a differenza dei freddi e numerici 2B, A2, 9S, che al contrario quasi vogliono farci intuire le stringhe di codice del gioco. La tabula rasa e conseguente ripartenza proposta da Automata è solo l’ultimo di una serie di esempi di un tema esplorato più volte proprio dalla cultura mainstream giapponese (vedi alle voci Attack on Titan, Devilman, Neon Genesis Evangelion, ma anche film di Yoshiaki Kawajiri come La città delle bestie incantatrici o Akira di Katsuhiro Otomo), a testimonianza dell’impegno di molti autori a interrogarsi, magari in modo difettoso ma con grande ambizione, su temi universali che non possono essere ignorati.
ALLA RICERCA DEL TEMPO CANCELLATO
La domanda di fondo attorno alla quale si snoda la vicenda di NieR: Automata è la solita, la più banale di tutte, quella che ci poniamo tutti dall’alba dei tempi: chi siamo? O forse dovremmo dire: cosa siamo? Il motivo di interesse nella formulazione che ne dà Taro sta nel porre l’interrogativo non solo da un punto di vista personale (chi sono io come individuo), ma quasi dalla prospettiva della specie: chi siamo noi, in quanto membri appartenenti alla genere umano? E soprattutto, meritiamo di avere più importanza di quella che ci attribuiamo? Arriverà inevitabilmente un momento in cui, presto o tardi, il nostro gioco finirà: niente più civiltà, niente più tecnologia, nulla da ricordare e niente più da raccontare e tramandare. Eppure sembriamo inevitabilmente legati al bisogno di superare lo scoglio della morte, e oltrepassare i limiti invalicabili del decadimento corporeo. Il mondo che ci presenta Taro è un luogo che sembra piano piano imparare la lezione del dimenticare e andare avanti; eppure, anche in questo scenario, gli umani provano a operare una resistenza, e faticano a smollare la presa e porre fine al proprio gioco (o al proprio giogo). Persino adesso che non esistono più, gli esseri umani continuano a esercitare pressioni fattuali, costringendo incolpevoli androidi a combattere per loro una guerra contro un nemico che a sua volta se n’è andato. È tutto un gioco a chi molla per ultimo, una lotta strenua per non essere dimenticati; e anche il mondo, incolpevole, continua a riecheggiare nei suoi spazi vuoti e nelle sue architetture della pressione da noi esercitata nei suoi confronti.
Una delle soluzioni che Taro sembra offrirci è che altro non siamo se non una specie temporale con un prima e un dopo, che dovrebbe semplicemente imparare a sganciarsi da altri vincoli, imparare a distaccarsi; capire che arriverà il giorno in cui non conteremo più, in cui verremo dimenticati, e che va bene così. La realizzazione a cui ognuno di noi dovrebbe (autonomamente) giungere è la stessa di Marcel Proust ne Il tempo ritrovato, quando cita un verso del poema A Villequier (Les Contemplations):
Il faut che l’herbe pousse et que les enfants meurent.
Io dico che la legge crudele […] è che gli esseri umani muoiano e che noi stessi moriamo, dopo aver esaurito tutte le sofferenze, perché cresca l’erba non dell’oblio, ma della vita eterna.
(M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Il tempo ritrovato)
Quella che scrive Proust nelle battute finali della sua epopea non è un'apologia dell'estinzione; piuttosto, al termine del suo romanzo Proust fa pace con sé stesso e accetta il fatto di avere un prima e un dopo. Dobbiamo divincolarci dall'ossessione di ciò che verrà dopo la nostra specie, e vivere con accettazione il tempo che abbiamo, senza il desiderio di volerci per forza trascinare più in là4. Qualche pagina dopo, Proust scrive ancora:
Non solo tutti sentono che occupiamo un posto nel Tempo, ma tale posto, anche la persona più semplice, riesce approssimativamente a misurarlo come misurerebbe quello che occupiamo nello spazio.
(M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Il tempo ritrovato)
In Automata lo scenario è simile: a un certo punto il tempo finirà, non avremo più tempo col quale misurarci. Le cose rimaste, per dirla ancora con Borges, “Dureranno più in là del nostro oblio; non sapran mai che ce ne siamo andati”5. E lo spettacolo non ci riguarderà più, che lo vogliamo o meno.
CECI TUERA CELA
L’idea esplorata da Taro secondo cui un giorno dovremo fare i conti con il non esserci più apre la riflessione a come ci siamo sempre posti nei confronti della nostra eredità, e come essa sia destinata a evolversi in futuro. Dall’alba dei tempi, lasciare una traccia di sé è stata una delle esigenze e delle pulsioni che più ci ha stimolato: dalle pitture rupestri di Lascaux in giù, trovare il modo di incidere il proprio nome e lasciare qualcosa di sé è un’esigenza tanto forte quanto quella di mangiare, riprodursi, dormire. All’interno della letteratura francese, un altro grande autore si è concentrato su come gli umani si siano comportati a tal proposito. Nel suo Notre-Dame de Paris, Victor Hugo dedica un lungo passaggio al rapporto tra uomo, eredità, storia e passato. Nel capitolo Ceci tuera cela (Questo ucciderà quello) Hugo analizza la conversazione avuta nel capitolo precedente tra l’arcidiacono Claude Frollo e altri due personaggi, Jacques Coctier, medico, e un tale di nome Tourangeau. In precedenza, indicando prima un libro sul suo tavolo e poi la chiesa di Notre-Dame, Frollo aveva pronunciato: “Ahimè! Questo ucciderà quello!”. Se in un primo momento l’affermazione sembrava rivolta all’idea che il potere della parola scritta (il libro), grazie alla recente invenzione della stampa stava soppiantando il dogma religioso (la chiesa)6, Hugo spiega che il timore espresso da Frollo va più a fondo:
Ciò voleva dire: «Il torchio ucciderà la chiesa». Ma sotto questo pensiero, senza dubbio il più immediato e il più semplice, ce n’era a nostro avviso un altro […]. Era il presentimento che il pensiero umano, cambiando di forma, stesse per cambiare modo di esprimersi, che l’idea capitale di ogni generazione non si sarebbe scritta più con la medesima materia e nello stesso modo di prima, che il libro di pietra, così solido e così durevole, avrebbe fatto posto al libro di carta, ancora più solido e duraturo. Da questo punto di vista, la vaga formula dell’arcidiacono aveva un secondo senso; significava che un’arte stava per detronizzare un’altra arte. Voleva dire: «La stampa ucciderà l’architettura».7
(V. Hugo, Notre-Dame de Paris)
L’idea presentata da Hugo è che gli esseri umani abbiano esternato il bisogno di tramandare sé stessi (al di là del contenuto del proprio messaggio) prima tramite l’architettura8, per poi rendersi conto, nel momento in cui la tecnica l’ha reso possibile, che la scrittura era un mezzo molto più adeguato.
Pietra e carta. Architettura e scrittura. E oggi, posto che Hugo avesse ragione, quali sono le conseguenze di tutto ciò? In un mondo in cui la fluidità è estremizzata, in che modo scegliamo di tramandarci? Le strade percorribili sono numerose, e molti credono che questo compito spetti alle forme visive o interattive, dal cinema al videogioco. L’alternativa che ci propone Yoko Taro in NieR: Automata chiama direttamente in causa il videogioco come protagonista, ed è interessante perché va in direzione della completa astrazione: secondo Taro, ciò attraverso cui noi scegliamo di tramandarci oggi sono i nostri dati puri. Una logica che ci riporta al Funes di Borges, che non registrava la realtà attraverso il pensiero, ma affastellando dati su dati su dati. In questo senso è probabile che Funes non avrebbe mai compreso la bellezza della cattedrale di Notre-Dame, ai suoi occhi solo un insieme di blocchi di pietra ordinati che cambiavano a ogni istante. Quando un giorno tutto svanirà, quando persino noi saremo ormai un ricordo e le nostre architetture e i nostri libri troppo indecifrabili per chi verrà, ciò che potrebbe rimanere a tratteggiare il filo che attraversa passato e presente sono i nostri dati, tanto evanescenti quanto in realtà “solidi e duraturi”. Del mare infinito di dati che stiamo producendo, incasellando, catalogando, confezionando, qualcosa rimarrà per i posteri, e la nostra speranza è che essi ci sopravvivano e che costituiscano il fil rouge tra la nostra specie e quella che un giorno ci succederà. I tentativi umani in questo senso sono tanto encomiabili quanto così vani da far quasi tenerezza9, e questo avviene appunto perché si tratta niente più e niente meno di una semplice esigenza della specie. Sappiamo bene che ci perderemo gran parte dello spettacolo: siamo già stati in grado di calcolare che un giorno, dopo che Betelgeuse sarà esplosa e quando la luce della sua supernova sarà giunta a noi, il bagliore sarà tanto forte che guardando in cielo sembrerà di avere due Soli; o che tra circa 4 miliardi di anni la nostra galassia si sarà fusa in una danza cosmica assieme a quella di Andromeda10. Eppure, perché calcolarlo? A quel punto né noi né i nostri discendenti ci saremo più da un pezzo, e la questione non ci riguarderà; ma essere in grado di poter scrutare così lontano nello spazio e nel tempo e sapere che non faremo parte dello spettacolo fa perdere ogni prospettiva, ed è comprensibile che si tenti un modo per trascinare una parte di sé un po’ più in là.
GLORY TO MANKIND
Davanti a questo scenario, cosa dovremmo fare? Posti di fronte al dilemma, una delle possibilità offerte da Yoko Taro è proprio quella di imparare a distaccarci e ripartire da zero. Se è vero che la conclusione a cui siamo giunti è che tramandare i nostri dati sia il modo più efficiente per resistere alla prova del tempo, il momento in cui anche quei dati diverranno muti una volta per tutte può essere solo rimandato. E si ripartirà di nuovo daccapo. Forse non lo faremo noi, ma qualcuno o qualcosa ripartirà senza dubbio. NieR: Automata non vuole offrire una soluzione moralista, non afferma che dobbiamo estinguerci o che come specie non valiamo nulla: più che inserire il dito nella piaga, Yoko Taro si preoccupa di mettere in evidenza i nervi scoperti di un meccanismo che, come l’umanità di Automata, sembra essere scaduto. Si tratta del meccanismo secondo il quale dobbiamo per forza vincere la nostra dipartita e incidere nel destino del pianeta anche quando inevitabilmente non ci saremo più.
Qui si torna a quanto detto all’inizio. Mettendo i due piatti sulla bilancia, è difficile dire se siano maggiori i pregi o più macroscopici i difetti di un gioco come NieR: Automata. A maggior ragione se si pensa che quanto detto finora ha solo scalfito la superficie dei numerosi piani di lettura del gioco. La sensazione è però che per qualche strana ragione il titolo di Taro non potrebbe esistere e far esplodere tutte le sue qualità, se di mezzo non ci fosse anche quel che di posticcio e puramente commerciale – almeno fino a un certo limite. Forse l’abbigliamento di 2B e la maschera indossata da Yoko Taro contribuiranno al successo economico (e non solo) del gioco oltre i suoi meriti, ma se questo è lo scotto da pagare, si può trovare il modo di farselo andar bene.
Nel suo manuale Storia del cinema d’animazione, il grande storico e critico cinematografico Gianni Rondolino è stato addirittura lapidario, e ha liquidato così la questione sul cinema d’animazione giapponese: “È una pura operazione commerciale e speculativa di cui non sarebbe il caso di parlare se esso non rappresentasse la parte più massiccia e nota della produzione di film d’animazione in Giappone”.
Famosa l’affermazione di Akira Kurosawa su Hayao Miyazaki: “Talvolta lo paragonano a me. Mi dispiace per lui perché lo abbassano di livello”. Qui potete trovare anche una conversazione tra i due.
Questi escamotage non vanno comunque condannati del tutto: è pur sempre vero che l'aspetto commerciale di un'opera come un videogioco non è mai trascurabile, e non credo che per essere “autoriale” un’opera debba per forza privarsi di qualsiasi logica commerciale.
Da notare che è quantomeno curioso come la realizzazione di Proust - ovvero che siamo esseri temporali e che quindi dobbiamo porci la domanda fondamentale sul chi siamo a partire da questo presupposto - è solo uno degli esempi di una generale tendenza dell’epoca a interrogarsi sul nostro rapporto col tempo nei campi più disparati. La Recherche di Proust fu scritta tra il 1909 e il 1922, e negli stessi anni anche la fisica teorica si interrogava sulla natura del tempo, arrivando a descriverlo come quarta dimensione fisica e formulando il concetto di spazio-tempo. Non molto più tardi, anche Martin Heidegger si concentrerà su come interrogarci a proposito di noi stessi a partire dalla conoscenza che abbiamo del tempo.
Da Le cose, di J.L. Borges, traduzione di F. T. Montalto.
Ricordiamo che il libro è stato scritto nel XIX secolo, ma è ambientato nella seconda metà del ‘400.
Purtroppo non posseggo più la copia cartacea del romanzo (il che è quantomeno ironico, se si pensa a questo specifico passaggio), quindi riporto la citazione presa da questa pagina: https://costellazioniletterarie.wordpress.com/2015/08/04/ceci-tuera-cela-notre-dame-e-saint-eustache/, dove è possibile leggere una breve analisi del passo di Hugo.
Victor Hugo era un noto amante dell’architettura parigina, che adorava ritrarre nei suoi disegni. Come a voler compiere questo suo amore, i suoi resti non riposano al Père Lachaise, cimitero degli artisti per antonomasia, ma nel più “solido e duraturo” (come avrebbe detto lui) Pantheon di Parigi.
Un esempio interessante è dato dalle sonde spaziali Voyager 1 e 2 mandate in esplorazione ai limiti del sistema solare, all’interno delle quali gli scienziati della NASA hanno posto due copie del Voyager Golden Record, due dischi per grammofono che contengono suoni e immagini che dovrebbero veicolare a un futuro scopritore alieno un’idea di cosa sia l’umanità. Le sonde sono da pochi anni uscite dal sistema solare (si trovano quindi dietro l’angolo di casa, su scala cosmica), e la speranza stessa che un giorno una fantomatica specie non solo possa trovare una di esse, ma possegga anche un modo efficiente per decifrare il contenuto di un disco inciso (per non dire possedere un grammofono con cui leggerlo) rende l’idea dell’improbabilità di un tale evento. Ovviamente quello della NASA è un gesto simbolico, ma testimonia l’interesse anche scientifico nel trovare un modo per tramandarci al di là del tempo. Il contenuto del Voyager Golden Record, selezionato da una commissione supervisionata da Carl Sagan, può essere consultato all’indirizzo https://voyager.jpl.nasa.gov/golden-record/.