Partiamo dai numeri. Dall’8 dicembre 2020 (giorno in cui mi sono iscritto su Chess.com) a oggi ho giocato 3384 partite a scacchi online. Piccolo disclaimer: una partita di scacchi può durare ore così come pochi minuti, ma io ho cominciato giocando solo partite lampo o rapido, vale a dire rispettivamente di 3 e 10 minuti per giocatore. Questo vuol dire che ci sono sessioni di gioco in cui posso spararmi decine di partite in un paio d’ore, il che aiuta un po’ a ridimensionare il numero iniziale. O almeno in parte.
Sì perché ciò non toglie che la media di partite da quando ho cominciato a giocare (circa 6 al giorno) resti un indice relativo, non tanto perché una partita può durare pochi minuti o addirittura pochi secondi, ma a causa di altri fattori precisi. Innanzitutto perché buona parte del tempo l’ho speso non per giocare contro altre persone ma per risolvere puzzle (Ah, i puzzle! Come ti rendono intelligente, i puzzle!), e poi specialmente perché ci sono stati enormi periodi di tempo – mesi e mesi in alcuni casi – dove non ho giocato neppure una partita. Il che alza drasticamente la media giornaliera nei periodi in cui sono stato molto attivo.
Gli scacchi sono uno dei giochi più diffusi e noti al mondo, e da quando sono diventati tecnicamente anche un videogioco il loro pubblico potenziale si è esteso a dismisura. Al tempo stesso sono entrate in scena nuove caratteristiche e nuove variabili di gioco che si sono portate dietro tutta una serie di possibili pro e contro. Sino a quando, del tutto inaspettatamente o forse proprio grazie a queste nuove caratteristiche, gli scacchi non hanno (ri)conquistato il mondo. E io ne sono caduto vittima con tutte le scarpe. Com’è successo?
Andiamo con ordine e cerchiamo di dare prima un senso a quella data, l’8 dicembre 2020, una data che oggi può apparire innocua e triviale ma che invece già di per sé è prodromo del male.
IL BOOM
Quello che può fare la mente umana è leggendario.
Nel febbraio del 2020 l’Italia è nell’occhio del ciclone: i piccoli comuni di Codogno e Vo’ Euganeo diventano una sorta di Contea tolkieniana, terre libere e brulle assediate dai Nazgûl del sistema respiratorio. Il mondo non sa ancora quel che lo aspetta ma BC Boncar, azienda di packaging ad alta qualità del varesino, intuisce l’andazzo e si riconverte in quattro e quattr'otto alla produzione di mascherine protettive: se non puoi sconfiggerli, fai come loro.
A riconvertirsi, a quanto pare, è tutto il Paese: la gente non esce di casa e comincia il biennio che conosciamo. Le persone si dividono in due: ci sono quelli del “non ne posso più di stare in casa, vado a buttare la spazzatura che almeno quello è consentito dal Decreto Conte”, e poi quelli che in estate saranno già gran nostalgici del primo lockdown, invocando un mese di chiusura all’anno memori dei tempi che furono (“Non sono mai stato così bene come col lockdown…”).
Ma sia gli uni che gli altri, nel momento in cui la pandemia si estende oltre i limiti del Bel Paese e diventa fatto globale, sono costretti ad affermare un nuovo modo di vivere, divertirsi, passare il tempo. Netflix ha un’impennata degna di un caso da manuale di Legge di Moore, Amazon fa il botto (non che prima le cose le andassero male, eh) e con lei la sua costola più gamificata, Twitch. La data da segnare sul calendario della storia è quella del 3 aprile 2020, quando il canadese xQc, al secolo Felix Lengyel, uno dei più noti streamer della piattaforma e con un giro di follower nell’ordine delle otto cifre, segue una lezione di scacchi tenuta da nientepopodimeno che il Gran Maestro Hikaru Nakamura, ex numero 2 al mondo.
E qui succede l’imprevisto: lo scambio di utenze (valore supremo al quale ci si vota con le collaborazioni fra creator) è tutto in favore dell’indefesso scacchista dalle origini nippo-americane, e i reclusi da lockdown di tutto il mondo si rendono conto di una mirabolante verità, nascosta alla superficie come capita solo alle grandi rivelazioni della Storia: gli scacchi sono una figata.
Inizia un giro d’affari di decine di milioni di dollari, e il faccione giocondo di George Washington non è mai parso così tirato a lucido nel passare da una mano all’altra al suono di espressioni come “difesa Caro-Kann”, en passant o “sistema Berlino”. La filiera riguarda tutti: commercianti di giocattoli, scacchisti di professione e aspiranti tali, streamer, siti web, applicazioni. Gli scacchi sono il nuovo (vecchio) re del quartiere.
L’escalation non si ferma: nel giugno 2020 nasce il PogChamps, un torneo online che comprende, oltre all’irriducibile e onnipresente xQc, anche un’altra quindicina di streamer di grossa taglia. L’eroe canadese grazie al quale tutto ha avuto inizio viene sconfitto in sei mosse da un altro pezzo da 90 della piattaforma viola, moistcr1tikal, in una partita che sa subito di leggenda, e che nei fan contribuisce immediatamente alla formazione dell’immaginario collettivo del gioco dell’anno.
L’euforia da scacchi non accenna a fermarsi, e i commentatori diventano più famosi dei professionisti: la scalata la vince il Maestro Internazionale Levy Rozman, classe ‘95, che emerge su YouTube surclassando non solo i colleghi agadmator e Eric Rosen, ma anche lo stesso Hikaru Nakamura, che con la popolarità ricevuta grazie al traino di xQc si era affermato in poco tempo come il canale YouTube di scacchi più grande al mondo, ma che ora deve cedere il passo.
Volete un paio di numeri per quantificare? Nel giro di un anno il canale di Levy Rozman, GothamChess, tira su più di un milione di iscritti (adesso siamo oltre il milione e mezzo), mentre a fine 2020 le vendite di libri di strategia nel mondo degli scacchi aumentano del 600%. I giocatori di Chess.com? Ormai non quantificabili.
E in tutto questo io dov’ero? Mentre il mondo si teneva unito a suon di arrocchi corti e fianchetti di re, avevo una vaga idea di cosa stava succedendo? Neanche per scherzo. Grazie a un’innata capacità di arrivare sempre in ritardo sulla vita e preso dal 92esimo rewatch della saga di Harry Potter che Mediaset lancia durante il primo lockdown, l’unica cosa che per mesi e mesi riconduco agli scacchi è il faccione di un tizio dai tratti giapponesi che mio fratello guarda giocare online ogni giorno su Twitch; ma io vivo in un altro mondo e quando sento nominare la piattaforma viola penso che qualcuno, starnutendo, stia storpiando il nome di Twitter. Alla data fatidica, quell’8 dicembre, manca ancora un po’, ma soprattutto manca un tassello fondamentale del puzzle. Il bello deve ancora arrivare.
L’ALTRO ROMANZO DI WALTER TEVIS
Il mio libraio di fiducia è un grande amante della fantascienza. Quando nel 2015 comprai Solaris nella sua iconica edizione Sellerio, al momento dell’acquisto mi guardò e mi disse col sorrisetto: “Libro leggendario”. Aveva ragione. Quella identica espressione la usa tempo dopo consigliandomi un altro libro (pratica che non amo, quella del libraio che ti piazza il libro in mano, ma alla quale non dico di no anche perché, come dicevo prima, sulla vita arrivo sempre tardi): si tratta di L’uomo che cadde sulla Terra, di Walter Tevis. “Leggendario” mi ripete anche quella volta, “se ti piace la fantascienza questo è un libro leggendario”. Lo ringrazio del consiglio e giro la copertina per dare l’impressione di leggere la quarta – tattica che uso sempre in questa specifica situazione per andare invece alla ricerca di quello che mi interessa, il prezzo: 9 euro. Al cambio, dodici George Washington dal faccione giocondo. Onesto. “Quasi quasi…” penso tra me e me. Ma siccome per principio non compro quello che la gente prova a vendermi, rifiuto l’offerta e proseguo. Metto il libro nella lista degli acquisti futuri, pensando che arriverà il momento in cui recupererò questo romanzo leggendario. Non fosse che dopo qualche tempo il libro va fuori catalogo e Neri Pozza, l’editore, non lo ristamperà mai più. Occasione persa: i dodici faccioni di Washington restano nel portafoglio e io non sento più parlare di Walter Tevis per anni.
Sino a quando, il 23 ottobre 2020, Netflix (quella dell’impennata stile Legge di Moore) pubblica in blocco una miniserie tratta proprio da un altro dei romanzi di Tevis, La Regina degli scacchi.
La parola che state cercando è un misto fra coincidenza e serendipità: io, che come gli avvoltoi arrivo sempre sui cadaveri delle serie tv lasciando la carne fresca ai predatori più grossi, questa volta ho un moto d’orgoglio e guardo La Regina degli scacchi a solo un mesetto dall’uscita. Mi rendo conto di una mirabolante verità: è una figata. Forse sul finale sarà un pelino troppo enfatica e scontata (viene comunque da un romanzo di quasi quarant’anni fa), ma la serie ha degli innegabili meriti narrativi e di realizzazione e io, che di solito passo il tempo a osservare dettagli di messa in scena come la carta da parati della scenografia e i copriletto perfettamente in tinta con la palette delle pillole assunte dalla protagonista Beth, non riesco a trattenere l’entusiasmo da competizione e cado nel tranello: adesso sto in fissa.
Le ricerche sulla serie confermano che anche il lato tecnico relativo agli scacchi è ben realizzato e persino il campione del mondo Magnus Carlsen, uno così pieno di sé che alla domanda su chi sia il suo scacchista preferito del passato ha risposto in tutta naturalezza “Il me stesso di tre/quattro anni fa”, una volta tanto allarga la manica e si spertica nell’elogio della serie. Meno sbottonato sarà riguardo al trionfo dell’online sull’analogico dovuto anche alla pandemia, mentre il rivale Nakamura non ha dubbi: sono il futuro del gioco.
Finisco la serie proprio nei giorni in cui i più infervoriti fan del Natale di solito sono alle prese con palline e presepi: l’8 dicembre mi iscrivo su Chess.com e comincia l’avventura/sventura. Non gioco a scacchi da una vita, ma ho intenzioni serie. Le prime partite riaccendono il desiderio, e così la sera dedico una mezz’oretta abbondante al gioco per riprendere il ritmo. Durante le vacanze natalizie gli scacchi sostituiscono le tombolate di famiglia e mio fratello, che aveva passato il resto della pandemia a studiare il gioco su Twitch assieme a Nakamura, mi disintegra regolarmente su una scacchiera fisica. Il risultato è degno delle scampagnate domenicali del Barcellona ai tempi di Guardiola, un 5 a 0 impietoso che non ammette repliche. Succede la cosa peggiore: mi incaponisco. Intensifico lo sforzo e mi concentro su una modalità in particolare, quella rapida da dieci minuti a giocatore. Nei mesi successivi gli scacchi online sono l’unica cosa a cui videogioco, e su Chess.com accumulo partite su partite. Devo però fronteggiare una cruda verità: non sto migliorando. Ma neanche un po’. Riesco a malapena a eseguire un paio di aperture fra le più banali, mentre il resto del mio gioco non vede progressi.
Dov’è la magia di Walter Tevis? Dov’è la catarsi? Raggiungerò il climax? Chi sta scrivendo questo romanzo? Più che un King’s Gambit sento di essere un uomo che cade sulla Terra frantumandosi in migliaia di pezzi. Eppure gli scacchi sono un gioco per persone intelligenti, no? Non sto buttando il mio tempo, vero? E poi non ho speso neppure un euro: nessun abbonamento premium, nessun George Washington virtuale che finisce sui conti di Chess.com – non sono mica un gonzo, io! – anzi l'unica cosa che faccio è aprire la notifica che mi dice “Ehi, ricordati di risolvere il puzzle del giorno per ottenere nuovi badge! E ricordati anche del torneo settimanale per salire in graduatoria!”. Che è quello che voglio, salire in graduatoria! Dunque non sto sbagliando, giusto? Gli scacchi sono il gioco degli intelligenti per antonomasia, vero?
No.
O meglio, nì. Dipende. Dipende se sai come prenderli. È tutta una questione di saper sfruttare e saper farsi sfruttare. C’è una sottile linea verde fra le due cose, e io voglio scovarla. Decido di provare a rispondere alla domanda “Gli scacchi ti rendono più intelligente?”. Ma qui sta il vero problema: io non voglio trovare la risposta perché genuinamente interessato alla questione o perché voglio migliorare il mio gioco, no. Io voglio trovare la risposta per continuare a giustificare il mio giocare online. Se la risposta è sì, allora le centinaia di partite accumulate nei mesi senza uno straccio di miglioramento non sono tempo perso. È questo che voglio sentirmi dire, è così che me la racconto. Voglio convincermi di non aver perso tempo giocando online contro avversari del Gambia o della Polinesia Francese in modo passivo, ma di aver giocato il nobile gioco degli scacchi, quello delle persone intelligenti, perdiana, il gioco più antico del mondo; e di averlo fatto per una buona causa, non inseguendo il fantasma di un pedone. Ché i fantasmi sono evanescenti e passano attraverso, mentre un pedone in faccia fa male. A meno che non si tratti di un pedone online.
PASSANO GLI ANNI, I MESI…
L’euforia da scacchi non accenna a fermarsi. La gente continua a giocare e persino il capitano xQc dall’alto della nave Twitch fa dei veri progressi, salvo poi abbandonare a bordo di una scialuppa fatta di live reaction e reddit vari. Io, però, resisto e finalmente miglioro con fatica il mio gioco e il mio punteggio. Alla rivincita con mio fratello succede la cosa peggiore che possa accadere a chi attraversa queste fasi, lo batto per la prima volta. Convincersi di esser bravi è un’arma a doppio taglio. Adesso non posso più abbassare l’asticella, ho delle aspettative di gioco da rispettare. E così sfondo quota mille partite, eppure c’è un problema: voglio giocare di più. Ma se il tempo a disposizione è sempre lo stesso, come posso fare? La soluzione è lì, davanti ai miei occhi, e si chiama modalità lampo. Niente più partite da dieci minuti a testa – e chi ce l’ha la voglia di concentrarsi per dieci minuti su una sola partita? Ma lo sai quante cose posso fare in dieci minuti? Eccone una: in dieci minuti posso giocare tre partite lampo.
E così mi appassiono a questa modalità di gioco: si muove senza pensare – ormai i pattern li conosco, è tutta una questione di tempi di reazione; la soglia dell’attenzione va giù giù giù, mentre il counter va su su su, e ora tocca quota duemila partite. Sai che c’è? E se provassi con la modalità bullet da un minuto a testa? Quando il gioco si fa duro, i molli ammorbidiscono i pezzi e smussano gli angoli della scacchiera. Gioca di più, gioca safe.
Ormai risolvo i puzzle giornalieri e quelli in modalità Survival – dove puoi risolvere a oltranza fino a che non si accumulano tre errori – con una facilità disarmante. Chess.com mi notifica che sono arrivato a 93 puzzle giornalieri di fila, solo un’altra settimana e sarà tripla cifra: non mi fermerò di certo ora, non dopo tutto quello che ho costruito; e neanche mi accorgo che l’intera sezione Survival è progettata per fornirti ogni giorno decine di variazioni allo stesso identico puzzle – o forse non voglio accorgermene: perché mai dovrei rinunciare al gusto di fare e rifare sempre la stessa cosa, nella quale ormai sono un vero maestro, per spingermi a un salto nel vuoto che richiederebbe pure uno sforzo di pensiero maggiore?
E poi c’è quell’oggetto lì, a forma di diamante, quello per la prova gratuita della modalità premium: l’interfaccia dell’app di Chess.com si gioca tutta su tonalità verdi e nere, ma quel diamante è di un azzurro saturo e luccicante, non posso fare a meno di notarlo. Ogni tanto premo la X in alto a destra per togliere il banner che mi chiede se voglio abbonarmi, ma quando riavvio l’app il banner ritorna – in fondo si dice che si torna sempre dove si è stati felici, no? E poi la prima settimana è gratis…
Ma no: resisto stoicamente e anzi, siccome il livello di gioco non si alza più ma rimane stagnante, riconosco che ormai si tratta di amore sì, ma di amore tossico e dico basta (ripeto: non sono mica un gonzo!). App disinstallata, detox.
Per una settimana. Reinstallo l’app e riprendo il giro, ma solo per due giorni: il punto di rottura questa volta si ha quando perdo sei partite di fila, di cui l’ultima a causa del tempo scaduto contro un avversario colombiano con un punteggio inferiore al mio di 80 punti Elo1. Rage quit e app disinstallata nuovamente. È il mio nuovo passatempo preferito: installo e disinstallo, dentro e fuori, snip snap, in base all’umore. Ormai non è più una questione di intelligenza né di gioco, e se vogliamo essere schietti neppure di orgoglio: ormai è routine. Del desiderio non c’è niente.
Quanti film avrei potuto vedere, anziché giocare inutili partite da tre minuti abbandonate a metà perché non ho avuto la voglia di pensare a come aprire la partita, in un gioco in cui pensare è l’unica attività richiesta? Quanti libri avrei potuto leggere, quanti altri videogiochi avrei potuto giocare per davvero? Domande da lasciare ai gonzi, io non ho tempo per queste smancerie romantiche: il counter segna quota 2845 partite giocate; alla numero tremila manca poco e io devo tener duro. E poi che male c’è? Non sono caduto nel tranello del diamante luminoso, neppure un centesimo speso per quasi tremila partite di scacchi online e migliaia di altri puzzle. Il mio punteggio Elo è stagnante da mesi, d’accordo, ma quello delle partite giocate cresce a dismisura. Se non posso batterli, si diceva.
Ogni tanto, però, chiedo a mio fratello se gli va una partita, una di quelle su una scacchiera vera, coi pezzi in legno lucido e fatta di compensato, che ha lo stesso odore delle vecchie tapparelle quando prendono troppo sole. “Va bene”, mi risponde. Lo batto di nuovo. Non provo nulla.
… E SE LI CONTI ANCHE I MINUTI
Tralasciando i casi personali, in chiusura è interessante provare a rispondere per davvero alla domanda che mi sono fatto: è vero o no che gli scacchi ti rendono più intelligente? Al che si potrebbe aggiungere anche la questione se e come gli scacchi cambino se videogiocati, anche alla luce del design delle app e di come esse cerchino di catturare l’attenzione del giocatore. Su entrambe le questioni esistono risposte contrastanti.
Se si chiede a Chess.com se gli scacchi ti rendono più intelligente ti dirà subito di sì, ma mettendo poi le mani avanti: alcuni dati lo suggeriscono, ma gli scacchi non possono renderti Albert Einstein. Gli scacchi sono un gioco con un numero molto ristretto di regole, di conseguenza le qualità che essi sono in grado di sviluppare paiono essere molto contingentate alle funzioni chiamate in causa: fra queste ci sono capacità di previsione, riconoscimento dei pattern, memoria e persino alcune forme di creatività. Risulta però molto più interessante provare a capire se queste abilità posseggano un riflesso se estrapolate e applicate ai campi più disparati, o se al contrario la loro applicabilità funzioni al meglio solo all’interno del gioco. Come affermano molti studiosi di game design e teorie del gioco, ci piace di più il riconoscimento di pattern vecchi che l’apprendimento di nuovi (è una questione accennata anche in questo articolo), e l’applicazione di pattern conosciuti in ambiti diversi da quelli del gioco all’interno del quale essi vengono appresi possiede un alto livello di imprevedibilità.
Ciò che rimane controverso è il rapporto che gli scacchi, una delle attività di gioco più vecchie che conosciamo, posseggono con i più grandi hub all’interno dei quali è possibile giocare online, come nel caso di Chess.com. Proprio come ogni applicazione che punti a massimizzare il tempo di utilizzo e a conquistare l’attenzione degli utenti, è inevitabile che giunga un punto oltre il quale, per un gioco che richiede un alto tasso di concentrazione, attenzione e pensiero, i propositi di un aspirante giocatore si scontrino con la cruda realtà: per fare sul serio bisogna studiare, e lo studio è lento. Gli scacchi sono un gioco serio e meraviglioso, ma la passività non è una precondizione utile per giocare: un grandissimo gioco per l'umanità, un passatempo controverso per un uomo.
È interessante poi notare come molti scacchisti professionisti abbiano elogiato i vantaggi portati dalla versione “videogioco” degli scacchi, perché alcune funzioni come la precisione nel calcolo del tempo rimasto al giocatore dopo ogni mossa (funzione automatica se si videogioca) risulta molto più precisa rispetto al gioco analogico, dove bisogna cliccare un timer fisico, talvolta perdendo istanti preziosi; o ancora, secondo altri il fatto di giocare dietro uno schermo e ben nascosto rispetto al tuo avversario aumenterebbe la concentrazione, oltre al fatto che rende più facile cose come ragionare ad alta voce o prendere decisioni. Tutte cose non scritte nel manuale da gioco, ma che entrano all’interno delle nuove possibilità degli scacchi se ripensati come gioco da giocare in video e isolati, avvicinando l’esperienza dello scacchista a quella del gamer da pc o console.
Tutte questioni interessanti e al tempo stesso opinabili, perché se questi sono i potenziali lati positivi che potrebbero portare il gioco a svilupparsi seguendo nuove vie, al tempo stesso aprono a vari elementi di criticità. E per uno scacchista di professione, che gioca durante il corso di una carriera centinaia di migliaia di partite, anche le questioni ergonomiche non sono cosa da poco; ma un Grande Maestro può permettersi questi calcoli, mentre a noi non resta che provare ad avvicinare i loro numeri. E le app per giocare online sono progettate per aiutarci, o no?
In fondo è solo grazie alle modalità lampo e bullet che ho potuto giocare così tanto, e senza spendere un centesimo. Anche se, come mi suggerisce una vocina dentro la testa, se non paghi per il prodotto, il prodotto sei tu. E intanto il counter si alza, e col mio Elo non ha nulla a che vedere: 3385, 3386, 3387… leggendario.
Il punteggio Elo è il sistema adottato per calcolare i livelli di abilità negli scacchi. Oltre al punteggio ufficiale, i siti e le applicazioni attribuiscono ai loro utenti un punteggio Elo (che varia in base ai risultati ottenuti) in modo da accoppiarli con avversari di pari livello. I Grandi Maestri di scacchi hanno un punteggio che supera i 2600 punti, sino a superare i 2800 punti per i cosiddetti Super-GM. Su siti come Chess.com il punteggio è però inflazionato, e così il Grande Maestro Hikaru Nakamura possiede un Elo relativo al gioco lampo di oltre 3200 punti.