COSA SI PROVA A ESSERE UN TRENO?
Una delle costanti di ogni videogioco narrativo è la presenza di un avatar1. Dopotutto la componente interattiva del videogioco si esprime principalmente attraverso il controllo di un personaggio giocabile: che sia umano, alieno, animale o semplicemente un oggetto (in)animato, buona parte dell’immersione che i videogiochi, più di tutti gli altri media, riescono a innescare, è dovuta all’immedesimazione del player nel suo avatar, che muore e trionfa in nostra vece. In qualche modo certamente metaforico, ma non per questo meno significativo, noi “sentiamo” il nostro avatar, ci mettiamo nei suoi panni. Questo non accade solo nei RPG, dove una parte essenziale delle meccaniche consiste proprio nel dissimularsi in un personaggio inventato che noi definiamo con le nostre scelte di player. Accade anche in Space Invaders o in Pac-Man, o in Pong. Siamo di volta in volta una navicella, o un segno bianco su sfondo nero che fa rimbalzare un altro pixel bianco dall’altro lato dello schermo. A ben guardare questa vertigine di immedesimazione empatica così estrema, è stata inventata dal videogioco quasi involontariamente. Ma prima? Tutta la storia dell’arte narrativa fino al videogame è una storia dell’arte antropomorfica. Prima di essere una astronave nel 1978 a pochissimi era mai venuto in mente che potessimo metterci nei panni di personaggi non-umani. Forse a ragione. Nel senso che forse solo il videogioco può sostenere, grazie alla sua immersività, una sospensione dell’incredulità così facile da smentire altrove. Basta un istante e ci ricordiamo che non siamo un’astronave, o un gatto, o un corriere in un mondo post-apocalittico.
Tuttavia, quel 1978 non è la prima volta in assoluto che un autore osa scardinare le regole dell’immedesimazione, mandando in cortocircuito la prospettiva antropocentrica.
Guardate questo dipinto di Johann Heinrich Fussli:
Sembra tutto normale, ma non lo è affatto. Dal punto di vista della logica classica questo quadro non ha alcun senso: siamo allo stesso tempo spettatori esterni del sonno della donna accasciata sul letto, e spettatori interni del suo incubo, come se fossimo dentro la sua testa. Questa sovrapposizione prospettica è prerogativa dell’arte visiva che ci fa percepire simultaneo ciò che nel linguaggio sarebbe mediato dalla giustapposizione. Guardate il dettaglio di quest altro dipinto di Pablo Picasso:
Anche questo volto non ha alcun senso dal punto di vista della logica classica: è la sovrapposizione di più prospettive simultanee. Il tentativo di problematizzare, trasfigurandolo in un’orizzonte di reinterpretazione artistica, il tema della trasposizione su una tela piatta, di un mondo tridimensionale. Un problema non da poco, frequentato dalla letteratura (Flatlandia) al videogame (Fez).
Guardate questo frame tratto da Sherlock Jr. di Buster Keaton, del 1924:
Grazie al meccanismo della sovraesposizione Keaton riesce a creare un dispositivo cinematografico per rendere perfettamente l’opposizione sogno/realtà in modo visivo. Di nuovo due prospettive che convivono simultaneamente. E a proposito di prospettive non umane, quello che vedete subito sotto è il primo esempio cinematografico del così detto “ghost ride”, che dà l’illusione che la telecamera stia fluttuando: è A Kiss in the tunnel2, un cortometraggio di poco più di un minuto realizzato nel 1899 da George Albert Smith:
Cosa si prova ad essere un treno? Se lo era chiesto il cinema circa 80 anni prima che se lo chiedesse Space Invaders a proposito delle astronavi.
CAMERE E SCHERMI
Si potrebbe ricapitolare la storia delle arti visive nella storia della prospettiva. Mettersi al posto di. Le possibilità immersive dell’arte visiva sono innegabili. Buona parte dipende dal fatto che l’arte visiva ci offre, insieme a qualsiasi oggetto rappresentazionale, anche un punto di vista definito su di esso. Non lascia spazio alle decisioni registiche dell’osservatore. Ogni dipinto adotta una prospettiva inequivocabile, così come ogni film si concretizza proprio nella scelta del regista del punto da cui inquadrare la scena. Una volta deciso, il vincolo prospettico è inaggirabile. Questa è una dinamica che esiste anche nella letteratura, anche se la decisione “registica” dell’autore esiste nella selezione del materiale raccontato, del tono, del taglio e della prospettiva narrativa ma, non essendo visualizzata, ed essendo la letteratura un bacino di storie infinitamente adattate in altri media visivi, ci sembra che un libro sia più lasco di un film nella stringenza della sua “regia”. Ma non esiste una storia senza prospettiva dalla quale raccontarla. Tenetelo a mente per il discorso che sto facendo.
Il tono della regia nel cinema è data da molti fattori, ma uno dei più importanti e quello che voglio analizzare ora è la posizione e il movimento della camera, perché sono due elementi di base anche del videogioco, e contribuiscono a definire l’esperienza ludica tanto quanto le meccaniche di gameplay. Non parlo della posizione e dei movimenti di macchina durante le cutscene, che sono sono equiparabili per composizione del linguaggio, proprio al cinema, rendendo il paragone ridondante. Parlo della posizione e dei movimenti nelle sezioni di gameplay. Dov’è collocata la camera mentre gioco? E cosa cambia spostandola? Quali sono gli effetti retorici prodotti dai diversi tipi di inquadratura? Sono domande importanti perché definiscono alla radice l’esperienza ludica.
La storia del videogioco segue un percorso abbastanza lineare per quanto riguarda l’utilizzo della camera, che dipende dalla conformazione dello spazio ludico e dell’avanzamento tecnico dell’industria. La loro storia inizia con spazi statici, in cui l’avatar rimane sempre nello stesso schermo, ed eventualmente sono altri elementi che vi compaiono. Questo tipo di videogiochi si chiama single-screen. Il primo salto fu quello dal single-screen al side-scrolling. La possibilità di avere uno schermo che scorresse, significò la possibilità di avere uno spazio con l’illusione di una progressione e di una esplorazione attiva realizzata attraverso l’avatar. Siamo noi con il nostro avatar a far scorrere lo schermo e andare incontro allo spazio e non lo spazio a venire incontro a noi. Il secondo salto è stato quello dal 2D al 3D, nella quinta generazione di console. Com’è cambiato l’uso della camera a seconda dello spazio visualizzabile a schermo, è la domanda che mi sono posto.
Nei single-screen, il tipo di inquadratura potrebbe essere descritto come un wide-shot. La camera è posta, idealmente, a una distanza tale dalla scena da inquadrarne tutti gli elementi, quasi sempre l’angolo è perpendicolare e la posizione centrata e ovviamente per definizione, non ci sono movimenti di macchina.
Nei side-scroller si affacciano i movimenti di macchina durante il gameplay. Il meccanismo di side-scrolling infatti è creato dalla carrellata laterale, il così detto “dolly shot”. L’inquadratura rimane pressoché la stessa, centrale e perpendicolare alla scena.
Infine, nei videogiochi 3D abbiamo due grandi categorie: videogiochi in prima persona e in terza persona. Nei videogiochi in prima persona, come gli FPS, il tipo di inquadratura è il POV, la soggettiva. Nei videogiochi in terza persona, invece, l’inquadratura è spesso o una rivisitazione dell’OTS, termine che sta per “over the shoulder”, anche detto “semi-soggettiva”, oppure una terza persona posteriore pura.
DI SPALLE O DI FRONTE?
Come cambia il meccanismo immersivo a seconda dell’inquadratura scelta? Voglio soffermarmi in particolare sui videogiochi in 3D che offrono una varietà maggiore di possibilità espressive con la camera.
La soggettiva in POV viene di solito privilegiata negli Sparatutto e nei giochi Horror. In entrambi i casi il motivo è lo stesso e abbastanza evidente: produrre tensione e tenerla sempre costante. La soggettiva limita la percezione dell’ambiente circostante costringendo il giocatore a compiere il movimento in prima persona per scoprire ciò che lo circonda, con la lentezza 1:1 del movimento della testa che avremmo nella realtà. Da questo contrasto tra l’aspettativa di controllo che abbiamo mentre giochiamo a un videogioco e il vincolo della soggettiva e della riproduzione (più o meno) 1:1 dei movimenti, deriva l’effetto fortemente impattante, ma forse troppo facilmente abusato, dalla prima persona. Ma i canoni possono essere sovvertiti. É quello che avviene in Silent Hill, un gioco survival-horror che rifiuta di adottare i canoni stilistici del genere in fatto di inquadrature e movimenti di macchina, creando degli effetti di inquietudine e tensione molto più sottili e invadenti del classico horror in prima persona che usa il jump-scare come cliché. Silent Hill adotta una prospettiva in terza persona classica, ma non rimane tale per tutto il gioco, che ha invece una vera e propria regia, cambiando continuamente la collocazione della macchina da presa e il punto di vista dal quale viene inquadrata la scena. Questa scelta, oltre a creare un effetto di frammentazione caotica e destabilizzante, rende oppressiva e claustrofobica l’esperienza. Tutte la variazioni registiche consistono in riprese dall’alto, di sbieco, con angoli di camera atipici. La camera non può girare di 360 gradi su nessuno dei suoi assi, e questo vincolo contribuisce in modo decisivo a creare l’atmosfera del gioco.
La variazione delle regole dell’inquadratura relative a situazioni specifiche sono uno degli aspetti più interessanti su cui si può sperimentare, anche perché ogni scelta porta con sé delle conseguenze stilistiche che contribuiscono a creare l’atmosfera complessiva di un’opera e ne definiscono anche il taglio. Facciamo un esempio. Si tende a pensare che il cinema romantico Hollywoodiano, il così detto Cinema Classico, fosse un cinema piuttosto melodrammatico nella rappresentazione dei drammi. Questo è vero, ma da cosa dipendeva questa marca stilistica? Principalmente proprio dalla scelta di cosa mostrare durante le scene drammatiche e dove collocare la macchina da presa. Prendiamo ad esempio un film classico del cinema classico, Casablanca. In una scena drammatica in un film prodotto a Hollywood negli Anni ‘40, di solito veniva mostrata l’espressione di chi subiva o agiva il dramma, come in questo caso, con il volto di Ingrid Bergman in primo piano e una diffusa luce espressiva:
In questa scelta, il regista vuole chiaramente che noi proviamo insieme al personaggio il suo dramma, vuole che piangiamo con lei, che viviamo la sua emozione. Ma guardate come il canone viene sovvertito da Sergio Leone in Once upon a time in America circa 40 anni dopo. Dopo lo stupro della donna di cui il protagonista del film è innamorato, Leone non ci propone il primo piano di De Niro, afflitto e colpevole. Fa questo:
Leone non vuole che proviamo quello che prova Noodles, non vuole farci piangere con lui, ma suggerire disgusto e, forse, compassione. Quindi allontana la camera e filma De Niro di spalle, toglie dramma alla scena, rendendola più sfaccettata.
Il cinema è pieno di esempi di personaggi inquadrati di spalle. Succede principalmente in due casi: o come quello che abbiamo appena visto, serve a suggerire distacco critico, oppure più semplicemente serve a seguire il personaggio mentre cammina, esattamente come nel videogioco.
AVATĀRA
Mentre, di esempi di inquadratura in terza persona che seguono il personaggio, il cinema è pieno. L’effetto di distacco dell’inquadratura di spalle è possibile nel cinema, in cui la camera è spesso usata per inquadrare il volto di un personaggio, i corpi, i dettagli, addirittura i paesaggi senza personaggi, come l’occhio di dio che contempla l’universo. Quindi l’effetto retorico dell’inquadratura di spalle e la sua polisemia, dipendono dal fatto che nel cinema c’è una varietà enorme di utilizzi della camera su cui una certa scelta può contrastare. Ma nel videogioco, questa funzione di contrasto è irrealizzabile e si perde. Questo avviene perché, a parte rari esempi di variazione registica, come il già citato Silent Hill, il videogioco è piuttosto monotono nelle sue scelte di ripresa. E infatti la camera in terza persona non porta con sé troppi significati espressivi, ma è semplicemente una soluzione comoda perché permette al giocatore di controllare un avatar di cui è possibile in ogni momento capire la situazione spaziale anche in relazione agli altri elementi dello spazio di gioco, dall’ambiente ai nemici. Questa possibilità è particolarmente utile nei giochi action, nei quali il combat system richiede informazioni strategiche sulla posizione dei nemici, e in cui l’apprendimento passa soprattutto dalla visione delle reazioni del nostro avatar ai nostri input.
Ma la monotonia di questa scelta impedisce la creazione di effetti d’impatto nell’utilizzo della camera, che invece potrebbero nascere grazie alla sperimentazione e alla problematizzazione di elementi del videogioco che tendono a essere dati per scontati. Il videogioco dovrebbe forse iniziare a osare anche nelle meccaniche e nelle caratteristiche che diamo più scontate, quelle talmente assodate da non essere considerate come possibile luogo dove far nascere significato. Come appunto l’utilizzo della camera. Succederà mai che in un videogioco potremo inquadrare, come significativa meccanica di gameplay, un paesaggio senza nessun avatar sulla scena? O che il movimento della camera diventi fondamentale meccanica di gameplay? O che un ibrido tra cinema e videogioco nasca davvero, non nell’utilizzo abbondante di cutscene, ma nella cura delle variazioni registiche durante il gameplay?
Probabilmente questa monotonia dipende dal fatto, altrettanto scontato, che nei videogiochi controlliamo di solito sempre lo stesso avatar nel corso dell'avventura, e seguiamo tutta la storia dalla sua prospettiva. Un tentativo di scardinare la “dittatura dell’avatar” nei videogiochi narrativi è stato The Last of Us II, in cui il fatto che controlliamo avatar diversi nelle varie fasi del gioco è una meccanica fondamentale dell'opera, non come accade altre volte in cui il cambio è del tutto casuale e arbitrario3.
Questa problematizzazione dell’assunto dell’avatar è interessante perché il videogioco, e qui torniamo da dove ero partito, è nato come problematizzazione, sicuramente involontaria, ma non per questo meno significativa, del concetto di “prospettiva non umana”, e quindi inevitabilmente in questo discorso rientra in gioco il punto in cui collochiamo la camera, quello che vediamo, e da dove lo vediamo. Quel “cosa si prova ad essere un treno, un’astronave o un gatto” è da sempre una prerogativa unica del videogioco, che più di ogni altro medium, ci permette di performare come oggetti inanimati o animali, senza una mediazione descrittiva, ma facendoci vivere il loro mondo “direttamente”. Ma è davvero così?
Forse, alla fine, in realtà, il gioco che stiamo aspettando e che porterà il medium a un gradino successivo, è quello in cui questo meccanismo unico del videogioco, verrà usato per raccontare il vero dramma dell’essere umano, quello che il videogioco, apofaticamente, incarna: il fatto che non possiamo uscire da noi stessi, che per quanto saremo il nostro avatar, non lo saremo mai davvero fino in fondo. Per quanto vertiginosa sarà l’immedesimazione, per quanto estremo il punto in cui collocheremo la macchina da presa, continueremo a rimanere dei player su una sedia davanti a uno schermo.
E quindi alla fine ogni fuga sarà un tornare a quella sedia. Ma avendoci cullato nelle nostre fantasie, forse impareremo ad apprezzare la sua solidità.
Così reale e così noiosa.
Tuttavia questa storia degli avatar non è una costante per tutti i videogiochi. Esistono videogiochi in cui non controlliamo avatar: i videogiochi gestionali e i videogiochi sportivi sono due esempi inequivocabili. In tutte e due queste tipologie di gioco infatti non controlliamo un personaggio ma una situazione, o detta in altri termini, non controlliamo un personaggio ma le interazioni tra personaggi.
Penso a Spider-Man per PS4, dove a fronte della possibilità di poter controllare un supereroe che oscilla tra palazzi facendo acrobazie e facendoti sentire come Spider-Man, siamo costretti più volte a controllare Mary Jane o Miles Morales, sigh