Informazione e improbabilità
Nell’ambito della Teoria dell’informazione è un fatto condiviso che l’improbabilità del messaggio si associ a un alto livello di informatività del messaggio stesso. Al contrario, più un messaggio è probabile, banale e prevedibile nella sua articolazione, nel senso di essere strutturato in accordo con le convenzioni paradigmatiche di un certo codice, più esso sarà povero di informazioni (pensate a una tragedia di Shakespeare e a un biglietto di auguri di Natale). La potenzialità informativa di un messaggio produce, come conseguenza logica, la sua alta potenzialità di essere smentito, perché proprio per essere informativo e originale, esso è strutturato in modo tale da codificare, e soprattutto moltiplicare, le occasioni della sua smentita. Un messaggio è informativo quanto più si getta nella mischia alla ricerca del suo fallimento, e più avrà la pretesa di spiegare e arricchire il discorso, di dire qualcosa di nuovo e di originale, più consapevolmente dovrà perseverare nella certezza del suo superamento.
È il principio fallibilistico alla base della posizione di Karl Popper sul criterio di scientificità delle teorie: una teoria è scientifica se essa è falsificabile. E più una teoria è informativa e azzarda spiegazioni profonde, più è esposta alla possibilità di essere controllata e, in ultima analisi, smentita. Scrive Popper:
E poiché una bassa probabilità significa un’alta probabilità di essere falsificato, segue che uno degli scopi della scienza è un alto grado di falsificabilità, o di confutabilità, o di controllabilità; ed è, in realtà, la stessa cosa di un alto contenuto informativo.1
Lo stesso principio probabilistico di Teoria dell’Informazione lo applica Eco in Opera Aperta. Al contrario di Popper, tuttavia, Eco lo usa non per descrivere una caratteristica delle teorie scientifiche, ma dei testi letterari. Eco afferma che quanto più un messaggio è ordinato e significa in modo chiaro ed esplicito - compito, questo, impossibile da assolvere senza una massiccia dose di ridondanza linguistica - tanto più il messaggio è prevedibile e banale. Dunque, se alla banalità corrisponde la ridondanza linguistica, all’originalità corrisponde l’ellissi e la sottrazione. La poesia ben riuscita, in effetti, è il risultato di una sintesi altamente improbabile nell’uso di strutture che nella pratica linguistica convenzionale non useremmo. É il motivo per cui la didascalia di un testo con ambizioni poetiche è sentita come un tradimento delle regole che innescano l’efficacia retorica della narrazione.
Lo “spiegone” è il pericolo più grande che corre un narratore ed è il più facile in cui cadere, proprio perché il linguaggio ordinario funziona per “spiegoni” e ridondanza. La sintesi poetica, invece, funziona per sottrazione e sottintesi, per suggestioni non esplicitate e metafore che resistono alla similitudine. Per questo la spiegazione di una poesia ci appare spesso un tradimento del suo spirito reticente e una negazione dei criteri di valutazione che essa stessa impone. Anche nei codici dell’ironia ritroviamo le stesse dinamiche, con regole implicite per la decodifica del testo ironico. Emblematica è la definizione dizionariale di “ironia” come quella figura retorica per cui si dice qualcosa intendendo il suo contrario. Il punto è proprio che si omette proprio l’esplicitazione di questa definizione. La prima regola dell’ironia è evitare di dire che si sta facendo ironia. L’omissione è ciò che rende un testo aperto a molte interpretazioni perché lo vincola all’ambiguità semantica. Lo stesso meccanismo di sottintesi logici e di ellissi linguistica si ha quando raccontiamo una barzelletta e per lo stesso motivo ci sembra che spiegarla equivale a non averla compresa affatto.
Cos’hanno in comune scienza e narrativa?
Paghiamo l’alta pregnanza informativa di una teoria scientifica con il limite della sua fallibilità e quella di un testo poetico con la sua fraintendibilità. Ma questo criterio non basta per definire la scientificità di una teoria o la poeticità di un testo. Indaghiamo questo concetto.
Esaminiamo ad esempio il caso della teoria psicanalitica di Freud: da un lato è altamente informativa e quindi, apparentemente, rientrerebbe nella definizione di scienza che dà Popper. Tuttavia, la teoria di Freud subisce un ribaltamento paradossale della sua pretesa scientificità: potremmo dire che essa è troppo informativa, talmente tanto che arriva a riassorbire dentro di sé anche le occasioni della sua smentita, neutralizzando l’importanza del controllo protocollare, rendendo inoffensiva la critica. La psicanalisi freudiana, in breve, si presenta come una teoria talmente improbabile da legittimare, con la genialità della sua improbabile formulazione, la sua scientificità. Ma l’originalità non è un criterio sufficiente per demarcare la scienza. Paradossalmente la teoria di Freud è talmente informativa e con pretese di potenzialità esplicative talmente esasperate da ribaltare la sua natura improbabile e fallibilistica, in dogmatismo. Si dota cioè di tutte le difese per sfuggire alle occasioni di smentita, e non è più possibile predisporre dei controlli che la mettano in crisi, perché ogni supposto fallimento, ogni feedback negativo riguardo alla sua efficacia può essere riassorbito e spiegato all’interno della teoria stessa, che dunque diventa il giudice dei suoi stessi errori. Quasi come chiedere all’oste com’è il vino che vende.
Abbiamo dunque scoperto un pericolo insito nella potenzialità esplicativa delle teorie: perché esse abbiano un qualche valore scientificamente riconosciuto, la loro potenzialità esplicativa deve essere limitata: nessuna teoria può arrivare a fagocitare i suoi stessi criteri di falsificabilità.2 C’è, in altri termini, un ostacolo epistemologico insuperabile alla creazione di una teoria del tutto: una risoluzione finale che si pretende abbia carattere scientifico, è impossibile per la definizione dei criteri di scientificità di cui ci siamo dotati. Anzi, il limite della parzialità e della provvisorietà di ogni teoria scientifica è proprio ciò che differenzia la scienza dalla religione e dalla superstizione: il rifiuto, nel discorso scientifico, di proporre immagini risolutive e totalizzanti. La scienza si dedica piuttosto alla creazione di strumenti momentanei per capire e agire sempre meglio sulla realtà. Strumenti da buttare, in una scalata eternamente frustrante di una montagna infinita, di cui non esiste vetta, o la cui vetta è rappresentata, metaforicamente, dal continuare a scalarla. Questo significa che delle buone teorie sono teorie di cui riusciamo a intravedere le crepe e prevedere la sostituzione, non teorie che ci sembrano perfette, ma che sono criticabili. Potremmo giudicare il valore di una teoria sulla base della raffinatezza che una critica deve possedere per metterla in discussione. Più una critica banale sarà efficace, più la teoria stessa sarà banale. Più sforzo sarà richiesto per elaborare esperimenti e controlli della teoria, più la teoria sarà per lo meno interessante. Il silenzio della critica stupefatto difronte a una supposta perfezione è un promemoria che c’è qualcosa che non va.
Il meglio a cui possiamo aspirare è la creazione di strumenti da buttare. Questa verità può essere una amara consapevolezza o una magra consolazione ma solo se la confrontiamo a sogni di gloria divina. Quando le nostre aspettative vengono smentite, questa smentita dice molto più su di noi e sulle nostre illusioni che sulla natura della realtà. Qualunque impresa umana, paragonata ai deliri metafisici su quello che vorremmo essere in grado di fare, sarebbe poca cosa. Non si esce dal sistema.
Questo discorso sul limite e l’intrinseca parzialità delle teorie scientifiche si può sviluppare anche per un aspetto fondamentale delle opere di narrativa. Ciò che sentiamo di autoriale e di progettato in un’opera estetica, è proprio frutto del vincolo imposto dall’autore e dalle sue scelte arbitrarie sulla materia di cui tratta. Pensate a un videogioco in cui ogni azione è permessa, o un romanzo in cui ogni ordine di interpretazioni è sullo stesso piano di validità. Sarebbero opere vuote, perché l’unica opera di cui si può dire ciò che si vuole è un’opera muta. Dal momento che l’opera parla, impone dei vincoli a quello che può essere accettato come sua interpretazione e quelle che deve essere invece scartato. In qualche misura ogni opera è “autoriale” per il fatto stesso di parlare, e quindi autoriale non significa necessariamente prodotta da un autore che ne garantisce l’ambizione artistica, ma significa piuttosto che è vincolata a certe scelte, non importa da chi siano prese, perché sono scelte di un “autore modello”, che ha valore solo nella misura in cui è responsabile della segmentazione del continuum, della catalizzazione dell’evento, quanto minimo di possibilità narrativa (non importa quindi che l’autore sia un team, una persona singola o una I.A.).
Quindi, per rispondere alla domanda che titola il paragrafo, cos’hanno in comune la scienza e la narrativa, dal punto di vista epistemologico? La risposta è: l’esercizio del limite. A cui si aggiunge il motore dell’improbabilità per spingere le teorie e i testi a essere riconosciuti come interessanti dalla comunità di interpreti.
È il limite che rende le storie, le teorie e i nostri atti comunicativi, pregnanti. Senza vincoli nell’articolazione delle strutture, non avremmo una traccia da seguire per comprendere i messaggi convenzionali, né una traccia sulla quale faccia risalto la sovversione originale della convenzione. E in questo senso l’arte e l’effetto estetico che chiamiamo, forse in modo un po’ naif, “originale”, non è affatto l’eliminazione dei vincoli, l’accesso a un regno di estati mistiche e di libertà dal vincolo del linguaggio, l’intuizione di un assoluto inattingibile alla logica, ma piuttosto la variazione e lo spostamento di un limite che per quanto mobile, rimane invalicabile. È allo stesso tempo desiderio del superamento e rispetto dei vincoli che essa stessa si impone e del Vincolo, quello finale, che è la morte, insieme ogni volta sfidata e alla fine accolta come insindacabile. Ogni opera (e ogni teoria), è una riflessione sui suoi limiti, una tematizzazione dei vincoli che la legittimano. La scienza, come la narrativa, è un’impresa che ci educa alla morte, perché ci insegna a rapportarci con il limite strutturale che le rende possibili. Scienza e letteratura (ma in questo senso per scienza, intendo sempre una riflessione filosofica sulla scienza), ci insegnano ad accettare la bellezza in funzione del fatto che essa ha il destino segnato.
Interessante notare come scienza e narrativa funzionino in modo speculare, opposto eppure i processi che governano il riconoscimento dell’originalità all’interno della comunità di interpreti sono estremamente simili. Nella scienza, la grande penetrazione teorica e congetturale si raggiunge con l’ambizione di dettagliare le proprie spiegazioni in modo che esse siano non-fraintendibili. Nella narrativa, la grande penetrazione poetica si raggiunge con l’esatto opposto, con la reticenza e l’omissione che generano l’ambiguità e la fraintendibilità. Eppure in entrambi i casi abbiamo a che fare con costruzioni di codici che fondano il loro valore sull’improbabilità delle strutture in cui si articolano.
Il sequel perenne
Abbiamo esplorato il rischio dell’assenza del limite in ambito scientifico analizzando la teoria di Freud. Il rischio dell’assenza del limite per la narrativa si realizza, non già quando all’autore si sostituisce un team o una direzione puramente commerciale che subordina la creatività idiosincratica di un autore a finalità puramente commerciali, bensì quando scompare il concetto di “Finale” dall’orizzonte delle produzioni culturali.
Una delle tendenze più importanti, sia dal punto di vista economico che culturale, degli ultimi 10 anni nell’industria dell’intrattenimento (dai videogame ai film) è la creazione di franchise, una pratica inaugurata probabilmente dal successo della trilogia originale di Star Wars, ma che è esploso nell’industria del videogioco prima che si imponesse anche nella cultura cinematografica. Final Fantasy, Mario, Tomb Raider, Pokemon, sono tutti franchise precedenti al Marvel Cinematic Universe, al DC Cinematic Universe o alla prosecuzione di opere che si credeva ormai concluse, con la creazione di continui sequel, remake live action di film di animazione e reboot, ovvero il principale modello commerciale della Disney. La Disney ha prodotto, a partire dal 2010, anno di uscita di Alice in Wonderland, film che ha dato inizio a questo trend decennale, ben 14 film live action remake di classici di animazione. Altri 21 live action di altrettanti film di animazione sono in produzione per i prossimi anni. Di questi 21, ben 5 sono sequel o spin-off dei precedenti live action del decennio appena concluso, a loro volta remake dei precedenti film animati.3
Le opere singole e autoconclusive sono sempre più rare a livello di produzioni ad alto budget: ci troviamo nell’epoca del sequel perenne. Le nuove opere sono sempre inserite in un Cinematic Universe, in una continuity, in un franchise. Lo stesso vale per la serialità televisiva, da cui anzi, è tratto il modello della produzione di sequel. L’unica variabile nella decisione del proseguimento di una serie tv è il successo della prima stagione. Non esiste una serie che dopo un grande successo della prima stagione non si fermi, anche se l’autore aveva programmato solo quella (vedi i disastrosi esempi di Westworld, Sex Education, The end of the fucking world ecc.). Sequel, remake, reboot, remastered sono diventati gli aggettivi più usati per descrivere un film, testimoniando l’ampia richiesta e consumo di storie che fanno parte di un’universo narrativo ben definito. All’interno di questi Universi ci sentiamo accolti, e abbiamo l’illusione dell’infinito e dell’immortalità. Ormai non siamo più abituati alla fine definitiva di un’opera. Le grandi case di produzione ci hanno sottratto il diritto alla nostalgia, e l’hanno rimpiazzata con l’attesa, commercialmente molto più redditizia. É la cultura dell’hype.
Abbiamo l’illusione ormai che la fine non esista più, non sentiamo più l’angoscia della partenza di Frodo dai Porti Grigi. Ogni finale è un falso finale. Ci troviamo perennemente a una scena post-credit di distanza dalla “vera” conclusione. Ormai i film della Marvel sono quasi 30, e mentre Avengers: Endgame era stato annunciato come la fine del progetto narrativo, in realtà ha rappresentato solo una tappa di uno sviluppo potenzialmente infinito. La DC continua a sfornare reboot, e a marzo andremo a vedere la SETTIMA iterazione di Batman al cinema. All’orizzonte si preannuncia un sesto film dei Pirati dei Caraibi. Ci sono 4 Uncharted, 8 Resident Evil, 3 Dark Souls, perfino una casa storicamente restia a produrre sequel come Nintendo ha prodotto il sequel di Zelda: BotW in uscita quest’anno.
Credo che questa ansia del sequel perenne sia un male per il potenziale valore formativo della narrativa, e non parlo di un valore moralistico della letteratura, ma di una sua funzione propriamente etica: l’educazione alla morte. Probabilmente la prima volta che sono diventato adulto, o che almeno ho intuito cosa significasse, è stata quando ho terminato di leggere Harry Potter a 14 anni, sapendo che non ce ne sarebbero stati altri. Quella consapevolezza è stata un momento formativo capitale, perché ho provato per la prima volta cosa significa la fine, e metaforicamente, la morte. Il fatto che ci stiamo disabituando alla tragicità della fine definitiva è una perdita enorme di una delle funzioni primarie della narrazione e una delle sue funzioni più potenti. Le major hollywoodiane e videoludiche assecondano la nostra paura della morte, e ci fanno rifugiare nell’illusione dell’immortalità di una storia che non finisce mai, di un universo che continua indefinitamente a crescere. Ci cullano in una eterna adolescenza viziata, facendoci credere che le storie non hanno limiti.
Una volta, mentre parlavo con un credente, mi è stato detto che la mia prospettiva estremamente razionale e atea era limitante. La mia risposta era stata che, in realtà è credere in un Dio a essere limitante perché ti vincola a qualcosa di totalmente trascendente. Ripensandoci, io avevo torto e il credente ragione. Non riguardo a dio, ovviamente. Lui aveva ragione a dire che la razionalità è limitante: è esattamente il limite che la rende tale, la consapevolezza di non poter dire tutto, di imporsi dei vincoli riguardo a quello che ha senso accettare come risposta. Per questo la scienza sarà sempre più debole della menzogna e della fake news. La razionalità sempre più debole della mistica. Sembrerà sempre deludente a chi ha deciso, a priori, che la realtà non è abbastanza. Il pensiero critico nasce proprio dall’evidenza e l’accettazione di un limite, di cui le storie fanno sentire così bene l’impatto emotivo e quindi è un male e una perdita che sia sempre più raro trovare conclusioni definitive e limiti finali.
Feyerabend aveva torto. Non è vero che “tutto fa brodo”4, per quanto sia seducente crederlo. Non è vero né quando parliamo del mondo fisico formulando teorie scientifiche, né quando parliamo di segni e di testi e di personaggi inventati e di narrazione. Scrive Eco:
C’è una pericolosa eresia critica, tipica dei nostri giorni, per cui di un'opera letteraria si può fare quello che si vuole, leggendovi quanto i nostri incontrollabili impulsi ci suggeriscono. Non è vero. Le opere ci invitano alla libertà dell'interpretazione perché ci propongono un discorso dai molti piani di lettura e ci pongono di fronte all’ambiguità del linguaggio e della vita. Ma per poter procedere in questo gioco, (…) occorre essere mossi da un profondo rispetto verso quella che io altrove chiamato l'intenzione del testo.5
Questo mi hanno insegnato la scienza e la narrativa, il valore del limite, del rispetto del feedback della realtà (o del testo). L’umiltà di una ricerca che non ha mai fine. Per questo motivo la scienza ha uno spirito intrinsecamente morale, è un’impresa umanista. Forse, però, la narrativa mi ha insegnato questa umiltà ancor prima della scienza, in un senso pre-razionale e pre-critico, ma fondamentale per la mia visione della vita e della morte. Facendomi sentire l’incedere di un Destino, l’approssimarsi di una fine irrevocabile, assolvendo così il ruolo di una “severa lezione repressiva” della mia fantasia e di tutte le infinite strade percorribili, facendo precipitare la funzione di tutte le possibili storie, tendendole entro i vincoli insindacabili di ciò che rimane scritto sulla pagina. Nelle storie, sono morto infinite volte: mentre assistevo al rogo della biblioteca più grande della cristianità, alla partenza di Frodo, alla morte di Achab e di Lear, alla cecità di Galileo, all’oscurità di Dark Souls. Sentendo l’attesa, mentre nel silenzio guardo la collina.
Karl Popper, Scienza e filosofia. Problemi e scopi della scienza, Einaudi, Torino 2020
Motivo per cui il modello di scienza basato sul cambio di paradigmi, proposto da Thomas Khun nel suo testo La struttura delle rivoluzioni scientifiche, è insostenibile.
https://it.wikipedia.org/wiki/Remake_in_live_action_dei_classici_Disney
Feyerabend, filosofo della scienza, è l’autore del testo Contro il metodo, in cui sostiene una sorta di anarchia metodologica nell’ambito della ricerca scientifica.
Umberto Eco, Sulla letteratura, Bompiani, Milano 2016