Il videogioco e la bugia dell'ultima sigaretta
Dopo molti decenni dalla sua nascita, il videogioco è ormai diventato adulto e sta finalmente capendo chi vuole essere
C'è una scena in Breaking Bad che passa spesso in secondo piano. Si tratta di uno dei dialoghi più sensibili dell'intera serie – forse il passaggio meglio scritto in assoluto – e non è un caso se tende a essere così nascosto. Gli sceneggiatori hanno deciso di inserire la scena in un momento particolare della storia: siamo vicini al climax dell'arco narrativo della terza stagione, e anziché concentrarci sul fatto che tutti gli elementi della storia si stiano finalmente incrociando, gli autori ci fanno godere di un momento di relax e con un'ellissi temporale veniamo riportati indietro, a una tenera giornata trascorsa in passato tra Jesse e Jane. Su volere della seconda, la coppia si è recata a una mostra di Georgia O'Keeffe, mostra che mette in scena una serie di dipinti della pittrice che hanno come soggetto una porta. Il ragazzo è particolarmente annoiato, e tornati in macchina i due discutono su quello che hanno appena visto. La conversazione, cominciata da Jesse, segue così:
“Io non capisco: come si fa a voler dipingere una porta e continuare a farlo fino ad arrivare a dipingerla dodici volte?”.
“Ma non era mai la stessa”.
“Ah, certo, lo era”.
“Era lo stesso soggetto, ma ogni volta differente: la luce era diversa, il suo umore era diverso. Scopriva nuove cose ogni volta che la dipingeva”.
“E a te non sembra un po' da psicopatica?”.
“Quindi non dovremmo fare niente per più di una volta? Dovrei fumare solo questa sigaretta? Magari dovremmo fare sesso una volta sola secondo la tua teoria”.
“Ma no, no”.
“Dovremmo ammirare solo un tramonto? O vivere solo un giorno? Visto che ogni giorno è differente, ogni giorno è una nuova esperienza”.
“Ok, bene. Ammetto che il dipinto del teschio della mucca non fosse male, ma... una porta? Te lo dico di nuovo: una porta”.
“Perché non una porta? A volte ci si fissa su qualcosa senza nemmeno capire bene perché. Apriti e lasciati andare nel flusso, ovunque ti porti l'universo!”.
“Bene, quindi l'universo l'ha portata ad una porta? Si è sentita talmente ossessionata dalla cosa che l'ha dovuta dipingere venti volte finché non è stata perfetta”.
“No, non la metterei così: nulla è perfetto”.
[…]
“Non puoi ammettere almeno per una volta che ho ragione? Andiamo! Quella O'Keeffe ha solo ripetuto decine e decine di volte quel dipinto finché quella stupida porta è stata perfetta!”.
“No. Era la porta di casa sua, e lei la amava. Per me è questo il motivo per cui l'ha dipinta”.
(Breaking Bad, S3: E11 Abiquiu)
A queste parole, come punto nel vivo, Jesse non sa più cosa aggiungere. Segue un breve silenzio, e dopo aver consumato la sua sigaretta, Jane la spegne, lasciandoci con l'interrogativo se ripeterà mai l'operazione di fumarne un'altra.
La domanda che ci poniamo oggi è: perché giochiamo così tanto agli stessi videogiochi? Cosa ci spinge, molto spesso, a rimanere nella nostra zona di comfort e spendere decine, se non centinaia o migliaia di ore sullo stesso titolo anziché provarne di nuovi, persino quando l'abbiamo terminato più e più volte, avendone colto tutti i segreti e gli aspetti non solo narrativi, tecnici o espressivi, ma anche quelli relativi al suo semplice lato dell'intrattenimento? Perché alcuni titoli non ci annoiano mai, e li giochiamo e li rigiocheremo per sempre? Rispondere a questa domanda significa cercare di capire cosa sia il videogioco come mezzo – o almeno tentare di farlo – e comprendere come le possibilità offerte da esso siano uniche e impossibili da replicare in qualsiasi altra forma di espressione.
Se è infatti vero che molte altre forme d'espressione umana e d'intrattenimento possono essere ripetute all'infinito (possiamo guardare un film quante volte vogliamo, recarci a una mostra del nostro artista preferito tutte le volte che ne abbiamo occasione, leggere e rileggere gli stessi libri), solo il videogioco possiede una dimensione per così dire mutevole, nel meccanismo di fruizione che ne facciamo ogni volta, tale per cui questa caratteristica attenga alla sua stessa natura. Un videogioco raramente si consuma nell'arco di poche ore, e anche i titoli di durata inferiore quasi sempre posseggono un fattore di riproducibilità molto più elevato di quello di qualsiasi altro mezzo. Per trattare questo argomento, però, cerchiamo di lasciare da parte quell’insieme di videogiochi che si incentrano soltanto sul lato dell'intrattenimento negativo: è ovvio che una determinata categoria di giochi siano strutturati esclusivamente per farci spendere quante più ore possibili con essi, con meccaniche studiate in modo apposito per stimolare la nostra dipendenza nei loro confronti; di questa categoria di titoli scegliamo di non interessarci, perché non solo non cercano di rispondere al nostro interrogativo, ma eludono volutamente la domanda dando una definizione aprioristica fissa e monolitica, affermando una verità immediata e veloce che nulla ha a che vedere con il mezzo del videogioco come forma d'espressione.
Al contrario, i titoli su cui scegliamo di focalizzarci sono tutti gli altri, ovvero quei videogiochi che, cercando di elaborare aspetti narrativi, di gameplay, visivi e interattivi, volutamente si spengono dopo una quantità più o meno variabile di ore - ma comunque finita - lasciandoci però paradossalmente nella condizione in cui, nel corso del tempo, saremo noi stessi a desiderare di ripetere quell'esperienza, ad ampliarla e a trovarvi, ogni volta, qualcosa di nuovo. Cerchiamo di farlo mettendo a confronto due tesi, due modi di rapportarci al videogioco e alla ripetizione: una tesi ascetica e una tesi estetica.
LA VIA DELLA PERFEZIONE
“[…] ciascuno di noi è come una mezza tessera d'uomo, spaccato come le sogliole, e d'uno fatto due.”
(Platone, Simposio, 191d)
Quando nel Simposio, attraverso le parole di Aristofane, Platone tenta di descrivere la natura umana, rintraccia in essa una dimensione intrinseca di manchevolezza: siamo esseri manchevoli, e come tali continuamente spinti da una pulsione erotica1 a completare noi stessi. Questo atteggiamento, questa disposizione d'animo è una condizione ineludibile e non intercambiabile della natura degli esseri umani; come tali, il nostro tentativo costante e ripetuto, in ogni attività che svolgiamo, in ogni ricerca che mettiamo in pratica, è quello di trovare completamento a noi stessi, di portarci a termine, di finirci. La tensione erotica è allora una tensione egotica: fare qualcosa, ripeterlo e ripeterlo ancora, corrisponde al nostro bisogno incessante di tappare il buco che riguarda il nostro essere, e come tale consumarci in modo definitivo. Secondo questo approccio, la ripetizione altro non è che una via ascetica che tende al completamento – non a caso una parola chiave nel gergo non solo narrativo, ma anche tecnico e strutturale del videogioco – vale a dire alla risoluzione definitiva di ciò che siamo. Completare un videogioco è solo, allora, il primo passo della risposta umana a un'esigenza quasi fisica e impellente. La ragione per cui, dopo averlo finito, quel gioco non è per noi davvero completato, è che non siamo ancora pronti ad ammettere che a essere completi siamo noi stessi. La ripetizione continua e costante, seguendo questo approccio, ci guida in direzione di un esercizio, un'ascesi: è per questo che nel corso del tempo – spesso molto prolungato – saremo tesi a riprendere in mano quello stesso gioco e ripetere le stesse operazioni, affinare le nostre capacità, perfezionare le nostre abilità per perfezionare noi stessi. Non è un caso se, proprio seguendo questo approccio, sia ormai cosa consolidata una certa spettacolarizzazione di tutta una sottocategoria di contenuti che riguardano il videogioco e che può essere elaborata proprio in questa chiave di lettura: le speedrun, le no-hit run, l'apprendimento di pattern di gioco attraverso la costante ripetizione, sono tutte sfide che in senso profondo ci dicono della volontà e della pulsione erotica (e quindi tipicamente umana) a completare qualsiasi aspetto di quell'opera in modo tale da essere finalmente completi, essere finiti.
Seguendo questo approccio, la finitezza umana corrisponde alla sua perfezione. Il limite sino a cui ci spinge questo modo di rapportarci al videogioco e alla ripetizione può giungere sino a una mania ossessiva, al bisogno di terminare tutto definitivamente. In questo modo siamo in grado di accumulare centinaia di ore sullo stesso titolo solo perché vogliamo diventare finiti una volta per tutte: il risultato conclusivo di questo approccio ascetico è la volontà di far sì che quel titolo non abbia più davvero nulla da dire. Il gioco non è terminato, ma finito e consumato. E con esso, noi stessi.
LA VIA DELLA PURIFICAZIONE
“Non è quello che vidi che mi fermò, Max. È quello che non vidi. Puoi capirlo? Quello che non vidi. In tutta quella sterminata città c'era tutto, tranne la fine. C'era tutto! Ma non c'era una fine. Quello che non vidi è dove finiva tutto quello: la fine del mondo. Tu pensa a un pianoforte: i tasti iniziano, i tasti finiscono. Tu lo sai che sono 88, e su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti loro, tu sei infinito. E dentro quegli 88 tasti la musica che puoi fare è infinita: questo a me piace. In questo posso vivere. Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi di tasti che non finiscono mai – e questa è la verità, che non finiscono mai – quella tastiera è infinita. Ma se quella tastiera è infinita allora su quella tastiera non c'è musica che puoi suonare. E sei seduto sul seggiolino sbagliato.”
(Novecento, La leggenda del pianista sull’oceano, 1998, regia di G. Tornatore)
È un fatto consolidato che molti di noi posseggano almeno un titolo che amano giocare e rigiocare nel corso del tempo, spesso anche a distanza di interi decenni. Questi titoli scandiscono il passare del tempo e continuano ad attraversarci percorrendo ogni volta percorsi sempre nuovi ma che finiscono col ripetersi, come un pendolo di Foucault all'interno del quale noi rappresentiamo il perno, il punto di incrocio fra le traiettorie. Non c'è dubbio che proprio in questo momento, citando questo semplice fatto, i titoli che corrispondono a questa caratteristica saltino in mente con un riflesso pavloviano impossibile da reprimere. Perché avviene tutto ciò? Perché, nonostante conosciamo a memoria determinati videogiochi, nel corso di dieci, venti anni o più, continuiamo a giocarli nel tentativo e nell'esigenza che essi ci dicano, ancora una volta, qualcosa di nuovo? Forse la realtà è che non stiamo cercando davvero una novità, ma la ripetizione di una sensazione antica, infantile e primigenia. Seguendo questo approccio, l'esigenza di ripetere l'esperienza di un videogioco non è improntata alla chiusura, alla finitezza, ma al contrario punta all'apertura, a dischiudere possibilità sempre nuove, sterminate. Se a essere cambiati nel corso del tempo saremo noi, è fatto inconfutabile che il videogioco sarà rimasto però lo stesso, tecnicamente ed esteticamente; eppure, ripetere l'esperienza è uno stimolo irreprimibile verso il quale siamo spesso sospinti. Questa esigenza di ripetere, allora, corrisponde alla definizione che Søren Kierkegaard dà del concetto di Gjentagelsen, ripetizione appunto, concetto esposto nel suo omonimo libro:
“La dialettica della ripetizione è semplice: ciò che infatti è ripetuto è stato, altrimenti non potrebbe venire ripetuto; ma proprio per il fatto che ciò è stato determina la novità della ripetizione. […] Dicendo che la vita è una ripetizione, si dice: 'L'esistenza passata viene a esistere ora'.”
(S. Kierkegaard, La ripetizione. Un esperimento psicologico, BUR, Milano 1996)
Il bisogno di ripetere l'esperienza di determinati videogiochi è, allora, la maniera con cui concretizziamo il nostro bisogno costante di novità, di dischiudere l'infinito dal finito. Se percorrendo una via della ripetizione ascetica eravamo protesi alla finitezza, alla conclusione, allo spegnimento, questa seconda via (per così dire) estetica ci guida all'apertura, all'accensione.
Quello verso cui siamo guidati attraverso il concetto di Gjentagelsen è il bisogno di far sì che, giocando a un videogioco per l'ennesima volta, l'esperienza di gioco passata venga a esistere ora come fosse la prima. In questo senso, la capacità che possediamo di rintracciare il titolo che per noi genera una tale predisposizione psicologica - quella capacità di escludere milioni di altri titoli che comporterebbe l’errore, dal nostro punto di vista, di ritrovarci seduti sul seggiolino di gioco sbagliato - corrisponde all'affermare quella parte di noi che mira all'infinito; lo stesso infinito di cui parla Giordano Bruno – e che gli costerà la vita, consumata sul rogo – che va oltre la nostra comprensione, ma verso cui siamo tesi secondo una pulsione erotica non perché ciò porti alla nostra conclusione, al termine della nostra ascesi, ma al contrario alla nostra iniziazione costante e ripetuta.
[…] non è cosa naturale né conveniente che l'infinito sia compreso, né esso può donarsi finito: percioché non sarebbe infinito […] .
(G. Bruno, De gli eroici furori)
L'idea che ci guida a giocare, rigiocare e rigiocare ancora uno o più particolari videogiochi nel corso del tempo è quello di seguire il suo flusso interminabile, processo che solo ci può portare al suo universo. Giochiamo e giochiamo ancora agli stessi videogiochi perché noi li amiamo, e a questa semplice verità non sappiamo più cosa aggiungere. È per questo che si tratta di un approccio estetico2: ciò cui noi ci affidiamo sono i nostri sensi e la loro capacità di aprire porte sempre nuove, o la stessa porta più volte, seguendo quella via della purificazione descritta dal poeta William Blake nella sua massima più nota:
“Se le porte della percezione fossero purificate, tutto apparirebbe all'uomo come in effetti è, infinito.”
(W. Blake, Il matrimonio del cielo e dell’inferno)
QUALE STRADA?
Se queste sono le possibilità con le quali possiamo affacciarci all'esperienza della ripetizione in un videogioco (continuando a giocarlo nel corso del tempo), è naturale chiedersi quale dei due approcci sia più significativo per il giocatore. La realtà è che una risposta a questa domanda risulta riduttiva e non centra il punto focale della questione, che rimane piuttosto capire come questa caratteristica così intrinseca alla natura del mezzo sia unica del videogame stesso: nessun altro medium, nella sua fruizione, possiede un elemento della ripetizione così pervasivo e cruciale per comprendere il valore dell'opera. Questa possibilità aperta dal videogioco non solo rende conto delle innumerevoli ore spese su uno stesso titolo - che spesso si prolungano ben oltre il suo completamento - ma chiarisce anche come il videogioco sia forse l'unica forma d'espressione umana che davvero può godere dell'accezione di Medium, perlomeno seguendo una delle tante formulazioni datene da Walter Benjamin, quando descrive il Medium come “il modo secondo cui si organizza la percezione umana”3.
È importante rilevare come questo non debba giustificare a giocare a una stessa opera incondizionatamente per centinaia o migliaia di ore; un filtro, a un certo punto, è pur sempre importante applicarlo affinché di un’opera traspiri solo ciò che non risulta dannoso; quello che però diventa chiaro è come solo il medium videogame, allora, riesca a esprimere così bene il ruolo giocato dalla ripetizione, e come questo gli consenta di dischiudere tutta una serie di possibilità precluse a qualsiasi altra forma di espressione. Tutto questo si amplia se si considera che siamo ancora in un'epoca del videogioco che sta da poco uscendo, a livello storico, dalla sua età pionieristica, e che se le premesse sulle possibilità offerte dal videogioco sono così variegate, uniche e mutevoli – sino a poter affermare che il carattere mutevole della fruizione è una delle sue poche costanti – siamo solo all'inizio di questo intenso processo, e abbiamo visto appena la punta dell'iceberg. Dal canto nostro, la scelta è se siamo disposti a spegnere o accendere questa pulsione del videogioco a spaziare così intensamente tra le sue infinite possibilità.
È opportuno specificare che con erotismo si intende qui l’ideale greco antico di tensione verso qualcosa, una tensione tipicamente umana che spinge al ricongiungimento con il lato mancante della nostra essenza più pura e da cui Platone fa conseguire una definizione di amore sessuale tutt’altro che corrispondente a quanto viene definito correntemente con la nozione semplicistica di “amore platonico”.
Con estetica facciamo qui riferimento in particolare all’accezione originaria del termine, così come descritta da Alexander G. Baumgarten nel suo Aesthetica dove, facendo valere l’origine etimologica della parola, l’autore la descrive soprattutto come “scienza della conoscenza sensibile”.
Per approfondire l’idea di Medium in W. Benjamin, molto più elaborata e complessa, si consiglia di consultare l’antologia di racconti dell’autore tedesco Aura e choc, in particolare il fondamentale saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), dove viene data la definizione di cui sopra. Si può affermare, senza paura di sbagliare, che Benjamin è stato l’autore che più si è interessato alla definizione di Medium e che ne ha influenzato tutte le evoluzioni e modulazioni successive.