IMPARARE A GIRARE LE PAGINE
Pensate se aprendo la vostra copia di Lolita di Vladimir Nabokov, prima del romanzo, ci fosse una sequenza di pagine con le istruzione per padroneggiarne le meccaniche, per istruirci sul modo di intendere certe frasi, di interpretare certe azioni dei personaggi e di leggere tra le righe del racconto. Sarebbe un tutorial, differente dalla comune prefazione che accompagna molti libri, a opera dell’autore stesso o di un commentatore. Se controllate la vostra copia di Lolita, ahimè, non troverete niente di simile, al massimo ci sarà una prefazione. In effetti la prefazione è la cosa più simile al tutorial videoludico che esiste nella letteratura e, a sua volta, la prefazione non ha alcun corrispettivo analogo nel modo del cinema, in cui l’autosufficienza dell’opera filmica crea un senso di solitudine ancora più “opprimente” che nella letteratura. Il film inizia e finisce, senza preamboli e senza postfazioni, e questa purezza incontaminata dell’esperienza cinematografica definisce un senso di surrogata sacralità dell’opera, che si staglia imperturbabilmente solitaria sullo schermo nero.
A dire il vero, sono stato affrettato nella mia similitudine tra un fantasioso tutorial letterario che ci insegni a leggere Lolita, e il comune tutorial videoludico: questo perché nel videogioco c’è una componente che è assente negli altri medium, ovvero l’interattività, che giustifica e legittima la presenza di un tutorial, ma per finalità differenti rispetto al tutorial letterario che precederebbe Lolita. Infatti, laddove nella lettura di Lolita l’unica interattività fisica richiesta è saper girare le pagine e muovere gli occhi per leggere nel verso giusto, nel videogioco il grado di interattività e la possibilità interattiva è estremamente stratificata e, cosa più importante, diventa veicolo di significati estetici che il semplice girare le pagine del libro non possiede. Un paragone corretto sarebbe, dunque, quello in cui un romanzo facesse dello girare le pagine, un atto significativo per l’espressione del messaggio dell’opera, e quindi un paragone appropriato sarebbe quello in cui a essere oggetto del tutorial, fosse l’atto di girare le pagine, l’atto interattivo che manda avanti la storia (pur senza esserne parte integrante come veicolo del messaggio stesso dell’opera). Tuttavia nemmeno questo paragone, sebbene punti nel verso corretto, sarebbe del tutto esauriente. Questo perché molti videogiochi non riescono a esaurire nel tutorial la varietà di meccaniche e di interazioni possibili con l’opera videoludica, riservando un grado di scoperta delle meccaniche stesse senza il bisogno o la necessità di accomodarle al giocatore in modo didascalico in una sezione tutorial. Alcune meccaniche di secondo grado, risultato dell’interazione e del funzionamento delle meccaniche di base, possono essere implicite, troppo banali o al contrario troppo complesse e concatenate alle altre che gli sono presupposte e quindi non contenute nelle sezioni di ammaestramento per una deliberata scelta di reticenza autoriale e fiducia nel player. Tuttavia è importante saper dosare questa forma di garanzia del piacere della scoperta, che deriva dal non ammaestrare su tutto, e l’insegnamento delle meccaniche necessarie affinché il piacere della scoperta sia davvero tale e non diventi piuttosto frustrazione o sterile trial and error.
ESECUZIONE
Come ho scritto in un altro articolo, il videogioco è l’unico medium che fa ampio uso della sezione del tutorial per spiegare il suo funzionamento di base, istruendo sul modo in cui l’opera deve essere eseguita. Stavo per scrivere “in cui l’opera deve essere letta” ma, di nuovo, questo non è il concetto corretto: la meccanica e l’istruzione al suo corretto utilizzo nel tutorial, non sono sinonimi di lettura dell’opera, bensì ne sono una precondizione. Dobbiamo quindi distinguere tra esecuzione del gioco, il puro gameplay, e lettura dell’opera, sua interpretazione, e quindi interpretazione di quelle meccaniche che devono essere eseguite per accedere alla dimensione interpretativa. Questo slittamento sta alla base, credo, del fraintendimento più comune tra i videogiocatori e buona parte della critica: che cioè basti giocare, eseguire il gioco per poterne parlare criticamente. Non basta, proprio in virtù del fatto che la componente interpretativa del videogioco si basa specificamente sulla valutazione del modo in cui le meccaniche di esecuzione siano significative e non collaterali, del modo in cui, riprendendo la similitudine di prima, il girare le pagine della storia racconti a sua volta una storia e non sia solo esecuzione ma esecuzione che problematizza sé stessa e richiama l’attenzione sui suoi stessi meccanismi di funzionamento.
Dunque, è a partire dalla complessità e dalla varietà delle meccaniche esecutive dell’opera che si rende necessario il tutorial, ed è per questo che esso non è necessariamente un punto a sfavore dei videogiochi, come la sua impostazione intrinsecamente didascalica e didattica potrebbe far pensare. Diversi videogiochi, inoltre modulano il tutorial in modi diversi, richiedendo al giocatore che si approccia all’opera diversi gradi di impegno e di penetrazione. Possono esserci tutorial estremamente pedanti, anche a costo di diventare ridondanti, e altri che sono sfidanti e costituiscono già di per sé l’inizio del gioco vero e proprio tanto da venire integrati nella narrazione in modo coerente. Questo è un punto importante da analizzare. In quanto opere umane, i videogiochi hanno un inizio e una fine: capire quando inizia e finisce un videogioco è di vitale importanza per la sua analisi. Se in un romanzo riusciamo a distinguere così nettamente la prefazione dall’inizio della storia vera e propria, nel videogioco questo confine è più sfumato.
QUANDO INIZIA UN’OPERA?
Lo stesso si potrebbe dire del cinema, dove l’individuazione dell’inizio dell’opera risulta essere quanto meno problematica: potremmo porre la questione se i titoli di testa e i titoli di coda siano o meno parte integrante dell’opera. La risposta è un anticlimatico e scontato “dipende”, visto che tutto quello che compare sullo schermo può essere potenzialmente parte integrante di e coerente con, l’opera, a seconda dell’uso che l’autore decide di farne e di come questo uso sia effettivamente coerente col resto. Si pensi ad esempio a Saul Bass, autore di locandine e di titoli di testa di film classici della Storia del Cinema, da Vertigo a Psycho, passando per Shining e Goodfellas, oltre a decine di altri. Bass parte dall’evidenza per cui i titoli di testa al cinema fossero considerati come una sorta di routine burocratica, per trasformare anch’essi in un’occasione in cui esprimere creatività e motivi che ritorneranno nel film vero e proprio. Per approfondire vi lascio il video di Andrea Tornese, autore di Silicon.
Discorso a parte vale per i titoli di coda, che non godono della stessa fama di quelli di testa perché, a quanto ne sappia, non c’è mai stato il Saul Bass dei titoli di coda, nessuno ha mai deciso di sperimentare e forzare la propria creatività in quel medium (o potremmo dire sotto-medium in quanto contenuto in un medium contenitore), quindi li releghiamo più facilmente fuori del film in quanto opera e, questa volta sì, possono essere considerati come un assolvimento burocratico, al pari dei ringraziamenti alla fine di un libro.
Per i videogiochi, quindi? Anche qui, dipende. In alcuni videogiochi il tutorial è perfettamente integrato all’opera, tanto da usare le parti iniziali della narrazione stessa come esercizio per imparare a padroneggiarne le meccaniche. Dark Souls e Bloodborne sono esempi emblematici: il tutorial non è separato dal mondo di gioco dove si svolge l’avventura, ma è integrato ad essa. Nei souls vengono proposte sfide significative fin dall’inizio, ma c’è sempre l’impressione che queste si svolgano in una sorta di area protetta, spesso separata geograficamente ma non narrativamente, dal resto del mondo, anche se non si sente mai l’impressione di poter sbagliare più liberamente, nonostante ci troviamo nella sezione tutorial.
In Dark Souls III ad esempio Gundyr il Giudice, potrebbe essere inteso come un tutorial, ma rimane pur sempre un boss come tutti gli altri che incontreremo ed è un ostacolo commisurato al grado di inesperienza e di scopertura dell’armamentario con cui si affronta l’inizio del gioco. Lo stesso vale per Bloodborne, dove il primo nemico che affrontiamo è un lupo come tanti ne incontreremo nel corso del gioco, ma il grado di sfida è dato dal non avere a disposizione delle armi, il che rende necessario l’utilizzo delle mani e conseguente allungamento estenuante del combattimento, potenzialmente vincibile, ma spesso mortale anche per i più esperti. Nei souls classici il tutorial è quindi risicato e soprattutto concentrato nella parte iniziale del gioco. In effetti le meccaniche dei souls per quanto appaganti sono molto minimali, e possono essere condensate nella parte iniziale perché rimangono pressoché invariate nel corso dell’avventura. In altri giochi souls lite invece, come Sekiro o Hollow Knight, si ripropongono fasi tutorial anche durante l’avanzamento, perché si acquisiscono sempre nuove abilità da padroneggiare.
In altri giochi la parte del tutorial è ancora più invadente, tanto da risultare tagliata fuori dalla storia vera e propria, come è il caso di Cuphead, ma anche in questo caso non bisogna rinunciare necessariamente all’autorialità e alla creatività. Il tutorial di Cupehaed è infatti considerabile un’opera nell’opera. In Journey invece, il tutorial è del tutto inesistente e si passano i primi minuti del gioco a cliccare tutti i tasti del pad per ottenere un qualche tipo di reazione, spesso rimanendo delusi. Il gioco non ne risente affatto, contribuendo a creare quell’atmosfera di rarefazione e di mondo alieno, ignoto e da scoprire che con un tutorial invadente sarebbe stato smorzato. Addirittura il gioco e il controllo sul personaggio giocabile iniziano ancor prima che compaia il titolo del gioco a schermo, con il personaggio che si muove verso una duna, ne raggiunge la vetta e la camera si allontana all’indietro allargando il campo per far spazio al paesaggio desertico, la montagna (flashforward del nostro obiettivo finale) e alla fulgida scritta Journey nella parte superiore dello schermo.
Avendo i suoi stilemi e i suoi vincoli, la sezione tutorial di un gioco può offrire decine di variazioni sul tema che possono diventare potenzialmente rilevanti dal punto di vista estetico: dovunque ci sia un limite da rispettare, si può parlare di estetica, nella misura in cui valutiamo il modo in cui un autore decide di confrontarsi con quel limite. Si può parlare in questo caso di inizio dell’opera con il tutorial? La risposta è sì, anche se non necessariamente l’inizio del gioco coincide con l’inizio della storia. Dell’interpretazione di un’opera c’è davvero poco su cui l’autore dell’opera possa sindacare, ma l’inizio e la fine dell’opera stessa sono insindacabilmente chiari nella loro arbitrarietà autoriale. Tutto quello che c’è sullo schermo quando parte il gioco fa parte dell’opera, anche il titolo o la schermata del menu, perché è l’autore che ha scelto che ci fosse.
LEGGERE O GIOCARE
C’è una caratteristica comune a tutti questi esempi di tutorial: tutti implicano la lettura di testi, che possono andare dalla telegrafica stringatezza di una singola lettera per indicare il tasto da premere (come il tutorial di Cuphead), fino a una vera e propria didattica del mondo di gioco, come nel tutorial di Sekiro, che i più avveduti giocatori sapientemente disattivano. C’è tuttavia un’eccezione di metodo alla didattica della lettura, il così detto text design, che si sviluppa più in armonia rispetto alla filosofia e alle potenzialità del medium videoludico. Questa filosofia è insegnare facendo, piuttosto che facendo leggere. Se il mantra della narrativa cinematografica è spesso associato allo “show, don’t tell”, quello della narrativa videoludica potrebbe essere “play, don’t tell”. Il bisogno di ribadire la distanza rispetto al “dire”, non fa altro che confermare lo spettro della letteratura, che proietta ancora un’ombra tanto lunga che spesso è difficile emanciparsi dalla sua eredità, nonostante le specificità dei vari medium.
Il videogioco, ad esempio, è l’unico medium in cui la materialità dell’azione si riconcilia con la sua profondità e in cui viene riscattato il significato nobile dell’agire, in contrapposizione ai medium più passivi che implicitamente esigono ed esplicitamente professano, uno spirito più contemplativo (il cinema su tutti), quasi screditando la risoluzione pratica del meccanico in favore della beatitudine dello studioso. In questo, il medium videoludico, offre le migliori possibilità di sperimentare quello svuotamento zen necessario a eseguire il gesto per il puro gesto, aderendo al limite che il codice impone, per creare quella esperienza di flusso, di trance agonistica o esperienza ottimale, che ci fa sentire tutt’uno con un’azione effettuata senza mediazioni razionali. Un tutorial scritto è sempre in una certa misura un tradimento di questo spirito di pura esecuzione e di restituzione di significati possibili a partire dall’armonia senza attriti del puro gesto meccanico di gameplay. Il tutorial perfetto della metodologia esecutiva, sarebbe quindi quello che insegna perché non può fare altrimenti, imponendo una successione di azioni ed effetti risultanti talmente stringenti e concatenati, da essere un tutorial che non è possibile nemmeno fallire di eseguire correttamente. Una coincidenza perfetta delle abilità che testimoniano la difficoltà del gioco e dell’inevitabilità della sua esecuzione che ne attesta la perfetta leggibilità e potrebbe portare a confondere la semplicità della sintesi con la facilità del banale. Ma non è forse quello l’obiettivo del videogioco? di rendere semplici e obbligatorie, inevitabili e infallibili, le sue meccaniche, in modo da eliminare, al limite asintotico a cui il medium tende, ogni margine d’errore e facendo il giro far coincidere la difficoltà più insormontabile con la leggibilità più eseguibile. Come scrive Herrigel nel meraviglioso Lo zen e il tiro con l’arco:
“E allora avviene la cosa suprema e ultima: l'arte diventa senz’arte, il tiro un non-tiro, un tiro senz'arco né freccia; l'insegnante ridiventa allievo, il maestro un principiante, la fine un principio e il principio un compimento.”
L’automatismo della stupidità, lo svuotamento dell’intenzionalità, l’abbandono dell’io, sono vicini alla profonda consapevolezza che li precede e li prepara e sono esperienze che tra le arti, raggiungono un vero compimento solo grazie al videogioco, che assomma in sé l’azione performativa dello sport e la stratificazione di significati dell’arte. Come disse Bruce Lee: “Before I learned the art, a punch was just a punch, and a kick, just a kick. After I learned the art, a punch was no longer a punch, a kick, no longer a kick. Now that I understand the art, a punch is just a punch and a kick is just a kick.” Raggiungere quel senso di consapevolezza che non implica l’ardore della passione ma il distacco dell’asceta è la sfida che il buon videogioco ci pone dinanzi: riusciremo a svuotarci per essere puro gesto? Riusciremo a eseguire meccanicamente e trovare il significato nella pura meccanica? Riusciremo a stimare la superficie più della profondità, seguendone le increspature senza cercare di prevederle? Riusciremo a farci bastare un salto, un pugno e un calcio, a trovare in essi nemmeno un riscatto ma solo di nuovo un salto, un pugno e un calcio?1 Scrive ancora Herrigel riportando le parole del suo maestro di tiro con l’arco:
«Non pensi a quello che deve fare, non rifletta sull'esecuzione!» mi gridava. «Il colpo fila liscio solo se sorprende il tiratore stesso. Deve essere come se la corda tagliasse improvvisamente il pollice che la trattiene. Lei non deve dunque aprire la mano destra con intenzione!»
Esiste il tutorial di un videogioco che riesce ad assommare la profondità verbale di questo ragionamento in un semplice gesto, un meccanismo tanto banale quanto perfetto: il primo livello di Super Mario Bros., il videogioco platform del 1985 per NES. Mondo 1-1, il primo livello di uno dei videogiochi più importanti di tutti i tempi, la fine e l’inizio del manuale del game designer, il principio e già il compimento della storia videoludica. Tutto quello che c’è da sapere sul game design è nei primi passi che Mario calca sulla superficie di pixel bidimensionale sullo schermo ronzante in quel 1985 colorato degli stessi colori del gioco. Un idraulico italiano che fissa in lontananza un mostriciattolo marrone sullo sfondo di un paesaggio minimale e stilizzato: tre nuvolette e qualche cespuglio. Mario rivolge il suo sguardo vacuo al mostriciattolo, e in quella vacuità reciproca, in quel disinteresse oracolare che Mario rivolge a quello che non è un nemico, quanto piuttosto un ostacolo e un ingranaggio dell’orologio che noi dobbiamo azionare, vengono ripercorsi in anticipo gli sviluppi di un intero medium, come capita a pochi istanti di poche opere per ogni medium. Era già tutto lì. Come era già tutto lì nella sequenza finale di Quarto Potere o nelle lacrime di Gilgamesh sul suo amico morto. Per non tradire lo spirito di semplicità, asciuttezza e universalità che quei primi passi nel mondo di pixel significano, userò le parole didascaliche, chiare e piane di Wikipedia per descriverne l’esecuzione:
All'inizio del "World 1-1", il giocatore prende controllo di Mario e si imbatte subito in un Goomba che si muove lentamente verso di lui. Secondo 1UP.com, è probabile che questo primo nemico uccida rapidamente un nuovo giocatore, anche se può facilmente essere evitato saltandoci sopra. Visto che a malapena non si perde alcun progresso nel gioco, il giocatore impara da questa sconfitta e può subito riprovare. Superato il Goomba, il giocatore vede dei blocchi disposti in ordine, alcuni dei quali sono dorati. Toccando uno dei blocchi dorati con la testa, fuoriesce una moneta. Secondo Miyamoto, vedendo una moneta uscire "il giocatore ne sarà felice" e vorrà ripetere l'azione. Continuando in questo modo il successivo blocco dorato farà uscire un fungo: un power-up che si muove verso Mario in modo tale che è quasi impossibile da evitare. Essere colpiti dal fungo fa in modo che Mario cresca in dimensioni, stimolando ulteriormente la positività del giocatore.[2][4]
Una volta superata questa formazione di blocchi, il giocatore si troverà di fronte una serie di quattro ostacoli verticali (gli iconici tubi verdi) che devono essere saltati. Ognuno di essi è di diversa altezza, facendo capire al giocatore, in modo piuttosto sottile, che più a lungo si tiene premuto il pulsante di salto, più in alto salterà Mario. Il giocatore impara come utilizzare il "pulsante di corsa" quando si imbatte in buche di diverse dimensioni all'interno del livello, visto che tenendo premuto il pulsante per prendere la rincorsa, si rende più facile saltare dall'altra parte.2
Il videogioco è un ibrido dei due mondi tra cui siamo tesi in quanto esseri semiotici ed esseri fisici, ci permette di vedere quello che giochiamo, di contemplare i risultati della nostra azione senza la differita della latenza, sottoponendo al feedback istantaneo della inappellabilità visiva gli esiti delle nostre abilità e delle nostre azioni meccaniche. Imparare a giocare, come imparare a tirare con l’arco, significa imparare a non poter fare altrimenti, a sentire il punto in cui i limiti diventano potenzialità e la potenza non implica più la fatica. Il game design dovrebbe sempre rinnovare la possibilità a cui esso è eletto, di far percepire l’inevitabile e di renderlo significativo e appagante, di guidare il giocatore a fare esattamente quello che lui voleva che facesse, senza dirglielo ma suggerendolo “topograficamente”. Risolvere un puzzle la cui soluzione è contenuta da sempre nel modo in cui i pezzi sono stati ritagliati. Costringere il giocatore a eseguire senza scelta, guidandolo sui punti di corda della pista per uscire meglio dalla curva senza prenderlo per mano. I punti di corda sono là, segnano un confine, e implicitamente ti guidano, ma lo fanno in modo passivo, imperturbabilmente fermi, impongono di aderire ad essi, senza venirci incontro. Siamo noi che dobbiamo andare incontro a loro.
Come abbiamo scritto in un precedente articolo io e Andrea Tornese, le domande più banali e le componenti di un’opera che più diamo per scontate, spesso sono le più importanti da analizzare per scoprire i meccanismi attraverso cui si produce e definisce l’esperienza estetica. Il tutorial è un cliche videoludico ormai e proprio per questo, vista anche l’unicità della sua presenza nel medium videoludico, dovremmo porci delle domande sul suo statuto. Lungi dall’essere solo un’appendice didascalica all’opera vera e propria, il tutorial può diventare territorio di sperimentazione e creatività con regole proprie all’interno delle quali poter rendere significativi momenti che altrimenti sarebbero appiattiti dalla routine della scontatezza. Come Saul Bass per i titoli di testa, dovremmo chiederci come rendere significativi tutti i passaggi di un’opera perché tutti tessano i fili di un tessuto pregiato.
Il bel video di Wesa su Ikaruga:
https://it.wikipedia.org/wiki/Mondo_1-1