È fine ottobre, a Parigi ha iniziato a fare freddo e il cielo si è stabilizzato su quella sfumatura di grigio che manterrà per tutto l’inverno. Sono le 18: dopo 20 minuti di metro, scendo alla fermata “Cluny - La Sorbonne” e mi avvio verso l’università. Come al solito, mostro al guardiano la mia carte d’étudiant e apro lo zaino, per verificare che non sono un pericolo pubblico. Attraversando i corridoi di marmo e legno, a volte decorati con qualche affresco rappresentante scene di studio e insegnamento, mi dirigo verso una sala diversa da quelle dove faccio solitamente lezione: è una grande aula ad anfiteatro, una di quelle che significano “questo è un luogo serio”. La sala non è piena, ma la conferenza è comunque partecipata: il pubblico è composto principalmente da studenti, alcuni dei quali sono pronti a prendere appunti con una penna stilografica (lo snobismo parigino prevede anche questo). Prendo posto e aspetto che il primo relatore inizi a parlare. Accendono il proiettore, e appare il titolo della conferenza: Assassins’s Creed Odyssey : Art, Architecture et Histoire dans le jeu vidéo.
I videogiochi in Sorbona: uno dei luoghi per eccellenza della seriosità accademica europea, dove tutto, dall’architettura barocca alla postura dei professori, sembra voler suggerire che lì si fanno solo cose importanti. Il fatto che, in un simile luogo, si organizzi una conferenza dedicata interamente a un videogioco (certo, alla fine è stata soprattutto una scusa per parlare dell’architettura e della storia romana, but still) è già di per sé significativo.
Non è certo una novità che i videogiochi abbiano attirato l’attenzione di alcune parti della “ricerca” accademica, anche in ambito umanistico: sono anni che si pubblicano studi e libri sulla rilevanza (filosofica, storica, letteraria, ma anche economica, politica, sociale) di questo o quel videogioco, o del medium videoludico in sé. Tuttavia, questi testi non sono quasi mai presi sul serio, se non dai pochi specialisti di quell’ambito. Per questo ho trovato rilevante il fatto che nell’Amphiteatre Michelet, dell’Université Paris1 Panthéon-Sorbonne, quel luogo grigio e serioso, si sia tenuta una conferenza dedicata a un videogioco.
Ciò non significa ovviamente che ormai ai videogiochi sia stata riconosciuta la dignità di ogni altro medium artistico: al contrario, sono ancora visti come un passatempo (e, nei casi peggiori, una perdita di tempo) infantile e dalla scarsa rilevanza culturale. Certo, alcuni giochi lo sono davvero, ma questo vale anche per il cinema e la letteratura: non tutte le opere sono di pari valore. Generalmente però, negli ambienti accademici1 – in particolar modo umanistici – e “intellettuali”, il videogioco non gode decisamente della stessa considerazione di cui (ormai da qualche decennio) gode il cinema e di cui (da sempre) gode la letteratura. È perfettamente accettato – e spesso incentivato – citare questa o quell’altra opera letteraria che ogni bravo umanista deve aver letto, e ormai sono tollerati – anche negli ambienti più snob – riferimenti a questo o quel film culto. Lo stesso non si può dire dei videogiochi: perché?
Per diverse ragioni: tra le prime che mi vengono in mente, è un’arte ancora giovane, molti dei professori e studiosi affermati non l’hanno mai conosciuta in prima persona, il pubblico a cui si rivolge effettivamente è spesso infantile (per non parlare della critica che si vorrebbe matura), ed è un medium estremamente complesso che non è facile padroneggiare. La questione che mi interessa esplorare, però, non è tanto la domanda sociologica del “perché ai videogiochi non è riconosciuta l’importanza che meritano?”, ma quella filosofica del “che importanza meritano i videogiochi?” : ovvero, qual è la rilevanza che il medium videoludico ha e può avere nelle nostre vite?
La rilevanza filosofica del videogioco
Nel 1954 Robert Warshow, uno dei padri della critica cinematografica statunitense, parlando della necessità di una critica della cultura pop, scriveva che
Such a criticism finds its best opportunity in the movies, which are the most highly developed and most engrossing of the popular arts, and which seem to have an almost unlimited power to absorb and transform the discordant elements of our fragmented culture.
R. Warshow, The Immediate Experience, p.24.
Se ci chiedessimo oggi, quasi 70 anni dopo, quale sia “la più altamente sviluppata e la più avvincente delle arti popolari”, il cinema sarebbe probabilmente rimpiazzato da serie tv e videogiochi. I videogiochi in particolare sono ormai la più ricca forma d’arte attraverso cui la nostra cultura si sta esprimendo: questo non significa che non si producano più film e libri di alto valore, ma che le opere più significative per descrivere lo stato attuale della nostra cultura non sono opere cinematografiche o letterarie, bensì videoludiche e televisive.
La loro rilevanza particolare riguarda non solo il valore artistico, che come sappiamo può raggiungere vette ancora inesplorate da altri media, ma riguarda soprattutto la loro quotidianità. Già il cinema (rispetto, per esempio, al teatro) era un’esperienza estetica comune, ordinaria, quotidiana. Ma serie tv e videogiochi sono “quotidiani” nel senso letterale del termine: li consumiamo ogni giorno. Sono parte della nostra vita ordinaria, prendono gran parte del nostro tempo e della nostra attenzione, sono uno strumento di educazione personale e costituiscono parte della nostra biografia. Già questo dovrebbe bastare: cosa c’è di più importante, di più filosoficamente rilevante, di qualcosa che facciamo tutti i giorni e che è parte integrante delle nostre vite?
Ma allora, se il videogioco è così fondamentale, perché viene trascurato della filosofia, che invece (almeno nelle sue intenzioni) dovrebbe occuparsi proprio di ciò che è più importante? È semplice snobismo? Un rifiuto di considerare culturalmente rilevante qualcosa di così basso e popolare?
In parte è sicuramente così. Senza contare il fatto che la cultura cosiddetta “pop” è stata per anni avversata dalla cultura “alta” in quanto espressione di una società in rovina, del dominio incontrastato della tecnica, di una manipolazione ideologica di massa, e così via. Questa maniera “francofrotese” di vedere l’arte “bassa” ha purtroppo influenzato anche chi avrebbe adottato altrimenti posizioni meno severe2.
C’è però un’altra motivazione, che riguarda la difficoltà che abbiamo nel riconoscere proprio ciò che è più comune e ordinario. È dai tempi di Talete che il filosofo è ridicolizzato come colui che, troppo occupato a guardare alle cose più elevate, non si rende conto di dove mette i piedi e cade in un pozzo. Platone ne farà un vanto: la contemplazione delle Idee fisse è la più alta forma di conoscenza possibile e l’unica via verso il bene, mentre il resto è mera opinione insignificante. Nonostante questa tesi sarà in seguito criticata da molti, rimane però una tentazione tipica della filosofia (ma non per questo esclusivamente sua) quella di pensare che ci sia qualcosa di più alto ed elevato, qualcosa dietro la semplice apparenza, qualcosa di non percepibile da tutti ma che richiede un qualche percorso di illuminazione. È il senso della “metafisica”: c’è qualcosa oltre la fisica, qualcosa che tiene insieme tutto l’universo, e questo qualcosa va conosciuto mediante il pensiero. E da qui le solite domande su Dio, l’Essere, il Bene, l’Anima (oggi chiamata l’io, il sé, the self). Se è questo ciò che ci tiene impegnati, è ovvio che non potremo che svalutare ciò che invece è semplicemente lì: la realtà ordinaria, quotidiana, concreta.
In breve, se ai filosofi è richiesto e insegnato di occuparsi di ciò che è elevato e profondo, non c’è da stupirsi se poi considerano irrilevante ciò che invece è più. basso e concreto. È contro questa tendenza che si scaglia il primo filosofo americano, Ralph Waldo Emerson:
I ask not for the great, the remote, the romantic; what is doing in Italy or Arabia; what is Greek art, or Provençal minstrelsy; I embrace the common, I explore and sit at the feet of the familiar, the low. Give me insight into to-day, and you may have the antique and future worlds. What would we really know the meaning of? The meal in the firkin; the milk in the pan; the ballad in the street; the news of the boat; the glance of the eye; the form and the gait of the body;—show me the ultimate reason of these matters; show me the sublime presence of the highest spiritual cause lurking, as always it does lurk, in these suburbs and extremities of nature
(Emerson, “The American Scholar”)
Seguendo Emerson, un altro grande filosofo americano, Stanley Cavell, farà propria questa riscoperta dell’ordinario e della sua importanza. Cavell si rifà anche a Ludwig Wittgenstein e all’idea, pervasiva nelle Ricerche Filosofiche, di “riportare indietro le parole dal loro uso metafisico al loro uso quotidiano” (RF §116): l’idea è quella di liberarsi delle confusioni che nascono da alcuni utilizzi che facciamo del linguaggio, e tornare al “terreno scabro” (§117) del linguaggio ordinario. Secondo Wittgenstein, cioè, i problemi filosofici (quelli più irrisolvibili) nascerebbero da confusioni linguistiche dalle quali ci possiamo liberare solo guardando all’utilizzo effettivo del linguaggio. In questo modo, le costruzioni illusorie crollano:
Da che cosa acquista importanza la nostra indagine, dal momento che sembra soltanto distruggere tutto ciò che è interessante, cioè grande ed importante? (Sembra distruggere, per così dire, tutti gli edifici, lasciandosi dietro soltanto rottami e calcinacci.) Ma quelli che distruggiamo sono soltanto edifici di cartapesta, e distruggendoli sgombriamo il terreno del linguaggio sul quale essi sorgevano.
L. Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, §118
Dunque, Cavell fa dialogare tra loro questi due autori apparentemente molto diversi per far emergere un punto fondamentale: ciò che è ordinario e quotidiano non è semplicemente qualcosa di dato, che sta lì, ma un traguardo da raggiungere, un compito. È coperto da tutta una serie di illusioni di qualcosa di apparentemente profondo e importante ma che in realtà non è altro che un castello di carta (probabilmente tutta la filosofia?). Solo liberandoci di queste illusioni possiamo sgombrare il terreno e far emergere ciò che è davvero importante.
L’ordinario emerge quindi come il risultato di un lavoro innanzi tutto su se stessi: un processo di chiarificazione delle nostre idee solo apparentemente sensate. Non è semplicemente una questione di analisi logica del linguaggio, che ci permette di riconoscere molte delle nostre proposizioni come insensate: parlare un linguaggio è essere parte di un’intera forma di vita, un modo di essere umani. È alla nostra forma di vita, nel suo complesso, che la nostra attenzione si rivolge. Il potere della letteratura (in tutte le sue forme) è proprio quello di far emergere certi aspetti importanti delle nostre vite attraverso un linguaggio ricco e articolato che ne restituisce la profondità: un osservatore attento nota le relazioni e le connessioni, presta attenzione ai dettagli e riconosce il valore delle cose.
Ma cosa c’entra tutto ciò con i videogiochi? Cosa c’è di così sofisticato? Perché un tale osservatore attento dovrebbe preoccuparsene? Perché i videogiochi sono importanti: attirano la nostra attenzione. Se non la nostra, attirano l’attenzione degli altri, e noi siamo interessati anche a ciò di cui si interessano gli altri: è importante (cioè, è una parte importante della nostra forma di vita) il fatto che le persone considerino importanti alcune cose3.
Un osservatore attento della nostra forma di vita, dunque, non potrebbe trascurare il fatto dei videogiochi. Essi costituiscono ormai parte integrante della nostra cultura, e, per certi versi, ne rappresentano l’espressione più elevata. Come ormai dovrebbe essere chiaro dopo il lavoro di autori come Robert Warshow, Stanley Cavell e Umberto Eco, non c’è motivo di separare nettamente la cultura “alta” da quella “bassa” per poi focalizzarsi solamente sulla prima. Riconoscere l’immenso valore di uno William Shakespeare non deve necessariamente coincidere con lo sminuire un Hidetaka Miyazaki. Non solo, così facendo si perderebbe di vista gran parte di cosa fanno gli esseri umani nel XXI secolo. Al contrario, riconoscere l’importanza del medium videoludico significa comprendere il modo in cui queste opere rappresentano un’espressione creativa del nostro modo di stare al mondo e di orientarci in esso.
Cosa significa prendere i videogiochi sul serio
La questione non riguarda solamente la dignità “accademica” del medium videoludico: non mi interessa più di tanto quante altre conferenze faranno sui videogiochi alla Sorbona o a Harvard o chissà dove. Certo, penso (e spero) che in futuro ce ne saranno sempre di più, ma non è questo il punto. Prendere qualcosa sul serio significa qualcos’altro. Cosa?
Innanzi tutto, significa non usarlo come scusa per parlare d’altro. Solitamente, titoli come “la filosofia di X” riguardano testi che sfruttano la popolarità di una data opera (sia esso un film, una serie tv o un videogioco) per vendere un prodotto che, nel migliore dei casi, è divulgazione delle tesi di qualche altro filosofo. Per esempio, ti parlo di Matrix per parlarti dello scetticismo e di Cartesio. Questo è il modo migliore per non prendere sul serio un testo: invece di guardare al suo significato specifico, invece di analizzarlo criticamente per capire cosa ci vuole dire, lo usiamo come uno schermo su cui proiettare qualche teoria.
Questa è purtroppo la maniera più diffusa di fare filosofia “pop”: prendiamo questa o quella tesi dalla storia della filosofia e mostriamo che è rappresentata da una certa opera nota al grande pubblico. In questo modo, però, non prendiamo l’opera sul serio: siamo interessati più alla tesi che vogliamo discutere, che al modo in cui l’opera stessa dice qualcosa di filosoficamente rilevante.
Un’opera (cinematografica, televisiva, videoludica) può mostrare la sua rilevanza e il suo spessore filosofico solo se la lasciamo parlare, senza apporre su di essa una nostra teoria precostituita. Il compito di chi si occupa criticamente di queste opere non è quello di decidere se questo o quel testo abbia o meno rilevanza filosofica. Il suo compito è la comprensione del testo: non si tratta di apporre un pensiero sull’opera ma piuttosto di riconoscere che l’opera è un pensiero4.
Il critico “comprende” il pensiero di un’opera perché ne conosce il linguaggio. In questo senso, il critico lavora come un traduttore: il bravo critico videoludico è colui che conosce il medium videogioco a sufficienza da comprendere i messaggi che attraverso di esso sono comunicati e tradurli poi in un testo argomentativo. Certo, essendo padrone del medium, può anche valutare l’utilizzo che ne ha fatto l’autore; tuttavia, sarebbe riduttivo appiattire il suo lavoro sulla valutazione. Ciò che fa un bravo critico è soprattutto proporre una traduzione, una ridescrizione del testo.
Come in ogni traduzione, ci sono dei limiti: non ogni espressione è perfettamente traducibile in ogni linguaggio. Specialmente per quanto riguarda le espressioni artistiche, è fondamentale non solo cosa viene detto ma anche il modo in cui viene detto (in questo consiste la forza della metafora). C’è qualcosa di particolare nella maniera in cui certe espressioni ci colpiscono, che si potrebbe perdere nel momento in cui quelle espressioni sono sostituite da altre che, teoricamente, sarebbero loro sinonime. La parafrasi ha dei limiti, annulla la poesia: ma ha anche un’utilità, e cioè fornisce una base a chi non è padrone del linguaggio poetico. La bravura del critico sta allora nel restituire ciò che l’opera mostra con espressioni diverse, offrendone cioè una ri-descrizione che però non sfoci in una sovrinterpretazione o in una storpiatura. Prendere sul serio un testo consiste quindi nel riconoscerne le specificità; criticarlo, nel ridescriverlo nel modo più fedele possibile (per quanto concesso dai limiti del linguaggio).
Dunque, il “prendere sul serio i videogiochi” dal punto di vista filosofico riguarda due aspetti diversi: da un lato, si tratta di riconoscere l’importanza dei videogiochi, in generale, nelle nostre vite; dall’altro, si tratta di riconoscere, nel momento in cui valutiamo criticamente uno specifico gioco, ciò che esso sta dicendo senza forzarlo a dire quello che pensiamo noi. I due aspetti sono complementari, e la difficoltà nei due lavori è la stessa: si tratta sempre di riconoscere ciò che abbiamo davanti e accettarlo per quello che è.
Mi concentro su questi perché se dovessi espandere il discorso al cosiddetto dibattito pubblico aprirei una cloaca di pregiudizi e falsità, spesso provocati da articoli tipo questo, con i soliti commenti da “si stava meglio quando si stava peggio” e simili.
Ritorna ancora una volta utile il paragone con il cinema nel secolo scorso, che ha vissuto una fase di ostilità non dissimile a quella che riguarda oggi il videogioco: come nota il già citato Robert Warshow, il criticismo cinematografico, e quindi quella parte della cultura che sceglie di prendere sul serio il cinema, ha assunto (siamo sempre nel’54) due forme che offrono una legittimazione solo parziale del medium: il criticismo “sociologico”, che giustifica cioè l’attenzione data al cinema con il mero fatto che molta gente guarda i film e questo ha una qualche rilevanza per lo studio della società; e il criticismo “estetico”, che ammette l’importanza del cinema ma solo dopo aver trasformato il cinema in qualcosa di analogo all’arte “alta”. Ovvero, «il critico sociologico ci dice, in effetti: non sono io ad andare a vedere i film; è il pubblico» mentre «il critico estetico dice: non vado a vedere i film; ma l’arte» (Warshow, The Immediate Experience, p.27). Entrambi sono modi di “nobilitare” il medium come oggetto di studio, come se non fosse degno di per sé. Una reale “nobilitazione” del medium, qualunque medium esso sia, consisterebbe invece nel valorizzarne le specificità e le particolarità che gli sono proprie. Questo è ormai avvenuto nel cinema, come testimonia il fiorire di una importante letteratura critica a riguardo; sta iniziando a emergere da qualche anno per quanto riguarda le serie tv; ma, in ambito videoludico, mi sembra che stiamo ancora in quella fase in cui l’attenzione al medium deve essere giustificata attraverso qualcosa di esterno a esso.
Questo non è cadere nel “criticismo sociologico” della nota precedente: non sto dicendo che lo studio dei videogiochi è importante perché molta gente ci gioca, ma che l’importanza e l’attenzione che si dà a cose come i videogiochi è di per sé una parte rilevante della nostra cultura.
Attenzione: non è solo un pensiero. O meglio, non è qualcosa di esclusivamente intellettuale. Una delle peculiarità dei videogiochi in quanto tali è che lo spettatore non è “passivo” come nel caso di un testo letterario o cinematografico. Certo, in un certo senso l’interpretazione di un testo non è mai veramente passiva perché richiede un’attività da parte del lettore, ma nel caso dei videogiochi c’è un elemento di attività che va ben oltre l’interpretazione. Interagendo con un videogioco noi facciamo qualcosa: abbiamo una agency, le nostre azioni contano e sono parte integrante dell’esperienza del gioco.
Non solo: videogiocando facciamo un lavoro su noi stessi. Come nel caso dello sport, alleniamo alcune capacità: non solo la manualità, ma anche l’attenzione e la ricettività, la resistenza allo stress, la sopportazione della pressione, e così via. Il tema è troppo ampio per essere trattato qui, però non è da sottovalutare questa dimensione del videogame come “esercizio spirituale”.