Videogiochi, Moralità e Arte
Ha senso guardare ai videogiochi da una prospettiva etica? Una proposta anti-moralistica.
Quest’articolo vuole essere la base di una discussione sulle diverse questioni morali che spesso emergono quando parliamo di videogiochi e di realtà virtuale.
Con “questioni morali” intendo principalmente “questioni di filosofia morale”, e quindi domande del tipo: Qual è la differenza tra bene e male in un mondo virtuale? Che doveri ha un giocatore nei confronti degli altri personaggi? Cosa approviamo e cosa disapproviamo nel suo comportamento? Bisogna porre dei limiti etici a cosa si può fare in un videogioco? Se sì, a chi spetta farlo, e perché?
Spoiler alert: dipende.
Non tutti i giochi sono uguali, non tutti i giochi possono essere definiti “mondi virtuali” e non sempre si può dare una risposta univoca. Tuttavia, alcuni videogiochi sono più uguali di altri. Mi concentrerò quindi su alcuni casi paradigmatici, ovvero singoli giochi che illustrano aspetti più generali che possono fare luce su questioni che si pongono anche in altri videogiochi. Ovviamente, questo articolo non ha alcuna pretesa di esaustività: come detto, aspira ad essere al massimo un punto di partenza per una discussione.
Ma perché preoccuparsi di cose simili? Non possiamo giocare a un videogioco senza preoccuparci di altro se non del divertimento? Sì, nessuno sta costringendo nessun altro a fare qualcosa. Tuttavia, la moralità è una dimensione importante delle nostre vite: possiamo certamente non seguire alcuna teoria morale precisa e non avere idee certe su cosa approviamo e cosa no, ma non per questo non compiamo giudizi e valutazioni morali. In quanto esseri umani attribuiamo valore alle cose, e così come ci preoccupiamo della bellezza estetica di un oggetto (anche se potremmo tranquillamente utilizzarlo senza interessarcene) allo stesso modo ci preoccupiamo anche del suo valore morale. Immaginiamo, seguendo l’esempio di Bernard Williams, una persona che non abbia interessi morali di alcun tipo: un amoralista perfetto, per il quale non esiste una risposta valida alla domanda “Perché c’è qualcosa che io devo fare?”, e quindi indifferente a considerazioni che riguardino cose come prendersi cura dei suoi cari, dire la verità, mantenere le promesse, rifiutarsi di compiere azioni che considera ingiuste (la presenza di considerazioni simili costituirebbe infatti una forma di moralità, per quanto minima o peculiare). L’amoralista può pensare coerentemente con il suo amoralismo che sia “giusto” che ognuno faccia quello che vuole, se per “giusto” non intendiamo altro che “permesso”. Ciò che non può coerentemente fare è provare risentimento per le azioni altrui o disapprovarle. Allo stesso modo, non può apprezzare se stesso: ritenendo il suo carattere degno di lode, sta presupponendo che certe disposizioni siano eccellenti o utili, aprendo il terreno a considerazioni morali. In altri termini, il perfetto amoralista è uno psicopatico. Se noi non siamo psicopatici, allora, non siamo amoralisti: se abbiamo una minima capacità di pensare in termini di interessi altrui, siamo esseri morali. Certo, nel momento di compiere un’azione alcuni faranno pesare questi interessi più di altri, ma nel valutare quanto valore dare a quali interessi siamo a tutto titolo nel territorio della morale.
Il rischio principale che si corre in questo territorio è quello del moralismo, che consiste nel considerare qualcosa in termini esclusivamente morali, con la pretesa di poter parlare a nome degli altri e decidere per loro cosa pensare. Principale obiettivo polemico di questo articolo non è quindi l’amoralista ma il moralista: cercherò di sostenere una posizione che tenga conto delle valutazioni di tipo morale che in ogni caso compiamo, ma che non faccia l’errore di imporre una prospettiva come l’unica valida. Per questo motivo, ciò che mi interessa non è tanto l’argomentazione a favore di un certo giudizio o di un altro, ma la comprensione che abbiamo di noi stessi (e degli altri) all’interno dei particolare rapporti che si instaurano nel caso dei videogiochi.
L’etica di chi gioca
Ora, quando si parla di videogiochi, si possono tirare in ballo almeno due prospettive: quella dei giocatori e quella degli sviluppatori. Partiamo dal punto di vista di chi gioca. In questo caso, possiamo distinguere tra giochi single-player, e giochi multi-player.
• Single-Player
A prima vista, potrebbe sembrare assurdo palare di questioni etiche nei giochi single-player: in fondo, se nessun altro oltre me è coinvolto, a chi importa quello che faccio? Io ho letto John Stuart Mill e quindi so che la mia libertà finisce quando inizia quella altrui, ma qui non c’è nessun “altrui”: sono solo io contro dei pezzi di codice, non danneggio nessuna persona reale. Sì, ma la questione non è così semplice.
Assumiamo (e non penso di star chiedendo molto) che uccidere sia, nella maggior parte dei casi, sbagliato, e che sia sbagliato anche molestare bambini. Nell’articolo del 2009 “The Gamer’s Dilemma”, il filosofo australiano Morgan Luck osserva che generalmente, in molti videogiochi quasi nessuno si scandalizza se un giocatore uccide un nemico (così come nessuno si scandalizza se un cavallo mangia un pedone giocando a scacchi), ma le cose diventano più complicate se si tratta di pedofilia virtuale. Non vedremmo bene un giocatore che per divertimento violenta un bambino in un videogioco: certo, nessuna “persona reale” verrebbe danneggiata, e nessun “bambino vero” verrebbe molestato. Tuttavia, non giudicheremmo quel fatto con la stessa leggerezza con cui vedremmo quello stesso personaggio uccidere un nemico. Probabilmente, penseremmo che il tipo di persona che gode nel compiere certe azioni in un videogioco abbia qualche problema, mentre non penseremmo (non tutti, almeno) lo stesso per uno che per vincere deve fare fuori un certo numero di avversari.
Va anche considerato il fatto che, in generale, consideriamo diversamente l’uccisione e la violenza sessuale, non perché una sia più grave dell’altra ma perché si tratta di azioni diverse e le vediamo diversamente. Tuttavia, ancora una volta, le cose non sono così semplici. Questo sembra uno di quei casi in cui ciò che ci disturba non è l’atto in sé, ma la motivazione che ne sta alla base: spesso, quando approviamo o disapproviamo moralmente una certa azione, sono le motivazioni che contano. E la motivazione “devo fare questa cosa per vincere in questo gioco” è valuta diversamente dalla motivazione “lo faccio per divertimento”.
La differenza notata da Luck, quindi, non è meramente tra l’omicidio e la pedofilia, ma è una differenza che riguarda la nostra disapprovazione morale della motivazione di un’azione. Per semplificare, pensiamo a un caso in cui la stessa azione, e cio'è l’uccisione di un nemico in un videogioco, ha connotazioni che vanno oltre il “mi serve per vincere il gioco”.
Un simile caso è il gioco del 2002 Ethnic Cleansing, un videogioco prodotto dall’organizzazione suprematista bianca National Alliance in cui il giocatore controlla uno skinhead neonazista (ma un giocatore particolarmente sensibile può anche scegliere come personaggio un tranquillissimo membro del Ku Klux Klan) con l’obiettivo di uccidere tutti gli individui di etnie diverse.
Sebbene l’azione in sé sia necessaria a vincere il gioco, e cioè non sia diversa da un cavallo che mangia un pedone sulla scacchiera, essa ha connotati ideologici che (spero) disapproviamo. In molti hanno quindi sostenuto che ci sarebbe qualcosa di moralmente sbagliato nel giocare a un simile videogioco, il quale è infatti considerato uno dei più controversi di sempre. Ovviamente, anche in un caso come questo è facile esagerare e pretende di proibire questo e altri giochi simili, ma ci soffermeremo su questo aspetto più tardi.
Per ora il punto è che, sebbene nessuna persona reale sia direttamente coinvolta e danneggiata, anche i giochi single-player si prestano a considerazioni di tipo morale. Il problema di tali considerazioni è che troppo spesso cadono nel moralismo, per cui noi, i buoni, sappiamo per certo che quelle cose sono sbagliate e quindi ci sentiamo in dovere di farlo notare alle povere anime perdute che si fanno corrompere dal male. Questa prospettiva risulta particolarmente fastidiosa per svariati motivi, ma non bisogna correre il rischio di rifiutare ogni tipo di morale solo per evitarla. Mi spiegherò meglio nel paragrafo conclusivo: prima vediamo cosa accade nel caso dei giochi multi-player.
• Multi-Player
Anche in questo caso, l’omicidio non è quasi mai un problema: nel peggiore dei casi, un uccisione nel videogame non fa altro se non escludere un avatar dal contesto di gioco. Per quanto possano immedesimarsi nel loro personaggio, i giocatori accettano, nel momento in cui aprono il gioco, la possibilità di essere sconfitti. Come commenta il filosofo David Chalmers,
«uccidere un avatar è più simile a un omicidio seguito da reincarnazione, se la reincarnazione producesse persone interamente sviluppate con la memoria integra» (David Chalmers, Reality +, 2022, p.354).
Ma, anche nei giochi multi-player, il caso della violenza sessuale è diverso. Il tema di come considerare le violenze in-game è dibattuto sin dal 1993, quando in LambdaMOO (il quale non era propriamente un videogame, ma un Multi User Domain, ovvero un mondo virtuale text-based per interazioni sociali), alcuni utenti che si trovavano nel “salotto” a chiacchierare iniziarono a eseguire atti di violenza sessuale contro altri due utenti, che si sentirono violati. La giornalista Julian Dibbell ha raccontato la testimonianza di una delle vittime dicendo che diversi mesi dopo l’evento quella donna ancora non riusciva a parlarne senza piangere per il trauma.
Diversamente dall’uccisione di un avatar in un contesto di gioco in cui tale possibilità era prevista e accettata sin dal principio, in questo caso l’azione non rientrava tra le possibilità previste e accettate dall’utente. Non solo: mentre nel caso dell’uccisione di un avatar le conseguenze sono quasi sempre solo interne al gioco, nel caso di LambdaMOO la giocatrice ha subito danni psicologici nella vita reale. Con ogni probabilità questo evento non è grave quanto un suo corrispettivo nella realtà non-virtuale; tuttavia, come sostiene Chalmers, a mano a mano che i nostri rapporti con le realtà virtuali si intensificano, potremmo iniziare a considerare casi simili altrettanto seriamente.
In altri ambiti, lo stiamo già facendo. Molti giochi multi-player pullulano di griefers, giocatori che si divertono nel danneggiare gli altri avatar ferendoli, rubando i loro oggetti, o uccidendoli. Questo comportamento è generalmente considerato come sbagliato, non solo perché renda il gioco meno piacevole, ma perché costituisce un torto non solo verso i nostri avatar, ma verso noi stessi. Certamente i nostri oggetti nel gioco ci importano meno che quelli nella vita reale; tuttavia questi possono comunque essere importanti per noi, in quanto potremmo aver impiegato diverso tempo ed energie per acquisirli, e il danno subito da un furto potrebbe essere altrettanto significativo. Almeno, questo è quanto ha sostenuto la Corte Suprema Olandese nel 2009, condannando due adolescenti che nel 2007 avevano rubato un amuleto e un coltello a un altro giocatore in Runescape.
Si potrebbe comunque sostenere che si tratta semplicemente di una questione di leggi: ci sono cose che sono permesse e altre no, deciderà il giudice. Sulla stessa linea, se il gioco prevede che si possano eseguire certe azioni, il problema è del gioco non certo di chi lo gioca seguendo lo spettro di possibilità permesse. In questo modo, però, non si fa che scaricare la responsabilità su qualcun altro. Il moralista potrebbe dire: Va bene, non è colpa del giocatore se in un gioco si possono fare cose che a me non piacciono, quindi devo prendermela con chi il gioco l’ha creato, no?
Affrontiamo allora la questione dal punto di vista degli sviluppatori.
L’etica di chi crea
In questo caso, la domanda principale sarà: Che responsabilità ha uno sviluppatore nei confronti dei giocatori?
Per chiarezza, con “responsabilità” intendo qualcosa di molto simile al termine inglese “accountability”, per cui la persona responsabile di qualcosa è quella chiamata a renderne conto. In altri termini, la persona responsabile è quella che ha la skin in the game: se succede qualcosa di negativo come conseguenza di una sua azione, allora sta a lei pagarne i costi.
Ora, la distinzione che va fatta qui non è più tanto quella tra giochi single-player e multi-player, ma tra giochi narrativi e giochi “open-world”. Si tratta di una distinzione grossolana: ci sono molti giochi che non ricadono né in una categoria né nell’altra. Tuttavia, delle differenze ci sono e, in questo articolo, ci possiamo accontentare di due macro-aree dai confini molto sfumati.
Nel primo caso, abbiamo una narrazione predeterminata con una sequenza di eventi che i giocatori seguono in modo coerente: la trama viene solitamente sviluppata attraverso una serie di missioni, livelli o capitoli che il giocatore completa in modo progressivo. Alcuni esempi di videogiochi con una trama lineare includono la serie di giochi "Uncharted" o "The Last of Us".
Nel secondo caso, invece, non abbiamo una vera e propria storia, ma un vasto mondo aperto e da esplorare, con molte attività e missioni secondarie tra cui scegliere. Questi videogiochi sono incentrati sull'esplorazione e sulla libertà d'azione all'interno di un ampio ambiente di gioco. In molti casi essi sono semplicemente spazi di incontro virtuali. I più noti tra i videogiochi che si concentrano principalmente su mondi virtuali sono Minecraft, Second Life e The Sims.
Se nel caso dei giochi narrativi lo sviluppatore agisce come l’autore di una storia, nel secondo caso il suo ruolo è più simile a quello di un dio che crea un mondo abitato da altri. In entrambi i casi, allora, la domanda iniziale sembra annullarsi: un autore non ha responsabilità morali verso il pubblico, e un dio non può per definizione fare il “male”. O può?
• Mondi virtuali
Come nota David Chalmers nel suo ultimo libro, a mano a mano che i mondi virtuali assumeranno un ruolo maggiore nelle nostre vite (si pensi all’ipotesi del Metaverso), potremmo avere pretese sempre maggiori su come vogliamo che questo mondo sia creato.
Per esempio: se nel mondo virtuale le risorse sono illimitate (come in Minecraft, dove il mondo si espande infinitamente e i materiali sono presenti in quantità illimitata), che tipo di economia dovremmo adottare? Oppure, per tornare ai problemi con cui abbiamo iniziato l’articolo, se un utente si comporta slealmente nei confronti di un altro, chi decide cosa farne? Si potrebbe rispondere “ci sono le regole del gioco, alle quali tu acconsenti nel momento in cui premi il pulsante Play”. Certo, però non è da escludere il caso in cui molti utenti, dopo aver impiegato diverso tempo e risorse “reali” all’interno del mondo “virtuale” pretendano una qualche forma di riconoscimento e di autonomia nella gestione delle leggi che li governano. Ci troviamo quindi in una situazione molto simile all’immaginario “stato di natura” di cui parlano i filosofi contrattualisti (impianto concettuale sul quale hanno lavorato molti filosofi moderni e contemporanei, da Hobbes e Locke a Rawls e Nozick, fornendo modelli di società radicalmente differenti l’uno dall’altro).
Si tratta però di questioni che interessano la cosiddetta “filosofia politica” e sulle quali non mi interessa soffermarmi più di tanto in questo articolo. Il mio intento era quello di mostrare come la questione su “che doveri ha lo sviluppatore” non si fermi a “nessuno”: potrebbero esserci casi in cui le nostre pretese su chi crea il gioco siano legittime. Allo stesso modo, ritengo ancora più superficiale la visione che assegna al creatore del gioco ogni responsabilità per come esso viene utilizzato. Consideriamo questo caso analizzando i giochi narrativi.
• Giochi narrativi
La questione del ruolo dello sviluppatore nei giochi narrativi è delicata perché si rischia facilmente di cadere nel moralismo: capita fin troppo spesso che inutili polemiche siano sollevate nei confronti di chi pubblica un gioco “scandaloso”, o “sovversivo”, magari perché violento o dai contenuti troppo espliciti. Prendiamo Grand Theft Auto, uno dei giochi più spesso citati quando si parla e straparla della violenza nei videogiochi: si fonda interamente sulla spietatezza, il sadismo e il sessismo, quindi si presta egregiamente a fare da bersaglio delle più superficiali delle polemiche.
Oppure torniamo ai casi citati a inizio articolo, in cui vengono compiute delle azioni che quasi nessuno esiterebbe a definire “sbagliate” o “ingiuste”: che responsabilità hanno gli sviluppatori verso queste azioni? E, ammesso che le critiche di molti, per cui i videogiochi violenti inciterebbero alla violenza, siano corrette (non sto dicendo che lo siano, sto dicendo: facciamo finta che), dovremmo considerare lo sviluppatore del gioco responsabile per una persona che diventa violenta dopo aver giocato?
Non mi interessa qui smontare (né tantomeno approvare) queste pretese. Ciò che trovo rilevante nel modo in cui vengono visti videogiochi del genere è l’assunzione di fondo: l’assunzione, cioè, che essi siano strumenti educativi (o diseducativi). In altre parole, se ci preoccupiamo che i nostri poveri giovani indifesi perdano la capacità di empatizzare e diventino violenti, ciò è perché vediamo (magari senza rendercene conto in questi termini) i videogiochi come strumenti che permettono di formare il carattere. In altri termini, riconosciamo ai videogiochi lo stesso potere delle opere d’arte.
Prendendo un esempio più “positivo” (da un punto di vista moralistico) rispetto a GTA: un gioco come Undertale può mostrarci l’importanza delle singole scelte che compiamo e le conseguenze che le nostre azioni possono avere sugli altri. In questo caso, potremmo vedere l’opera come “educativa” nel senso che ci può rendere persone più attente e responsabili.
Quindi? Dobbiamo giocare solo ai giochi “buoni” perché altrimenti diventiamo “cattivi”? Dobbiamo imporre agli sviluppatori di videogame di inserire una bella morale che ci renda tutti più buoni dopo aver giocato?
No, ma può essere utile tenere a mente che le esperienze che facciamo nei videogiochi, proprio come in ogni altra opera d’arte, ci formano in modo molto simile a quelle della vita reale. Se vediamo i videogiochi come opere d’arte (cosa che fanno anche i più accaniti moralisti “conservatori” nel momento in cui attribuiscono loro il potere di plasmare un carattere), è possibile stabilire una diversa relazione con essi e con gli artisti che li producono. Si tratta di una relazione in cui noi giocatori ci assumiamo la responsabilità di farci educare dai giochi che scegliamo di fare nostri, e lasciamo agli sviluppatori la libertà di produrre l’opera che noi sceglieremo. In questo modo, la questione della responsabilità viene trasferita dal piano pubblico e collettivo, che porta al puntare moralisticamente il dito verso qualcun altro, a quello personale e individuale, che porta a un un’assunzione della propria responsabilità.
Conclusione: arte e responsabilità
Individuare negli autori la sola causa di tutto ciò che avviene nel videogioco è un modo per scaricare su di loro la responsabilità delle nostre azioni. È facile dire: se questo gioco è violento la colpa è di chi l’ha prodotto e quindi chi l’ha prodotto va punito (come fa il moralista). Ma è altrettanto facile dire: io non ho alcuna responsabilità su ciò che faccio, perché quello che faccio è permesso dal gioco (come fa l’amoralista).
Al contrario, un riconoscimento dei videogiochi come opere d’arte implica da un lato la maggiore libertà possibile per gli sviluppatori, che in quanto artisti devono potersi esprimere per produrre l’opera migliore, e dall’altro richiede una selezione personale delle opere dalle quali vogliamo essere formati. Quindi, gli sviluppatori – siano essi i suprematisti bianchi di Ethnic Cleansing o il Toby Fox di Undertale – non dovrebbero essere ritenuti moralmente (né, tantomeno, giuridicamente) responsabili per l’uso che un utente fa della loro opera; ma, allo stesso tempo, sta a me giocatore assumermi tale responsabilità. Sono io a dover riconoscere il valore che attribuisco alle opere da cui decido di farmi plasmare, e quindi sta a me selezionarle al meglio. In questo modo passiamo da una prospettiva moralistica della responsabilità come qualcosa di collettivo, un problema pubblico del quale preoccuparci tutti per rendere il mondo un posto migliore, a una prospettiva radicalmente individualistica, in cui l’unica responsabilità è quella che ho io nei confronti del me stesso migliore. Se voglio diventare quella versione migliore e autentica di me, devo assumermi la responsabilità di scegliere da chi farmi educare.
Se ciò che io sono ora è il risultato di un processo continuo di influenze, scelte, relazioni, rielaborazioni, allora è importante – se voglio diventare la versione migliore di me stesso – assumere, per quanto possibile, il controllo di tale processo. L’alternativa è lasciare che qualcun altro scelga per me, che qualcun altro delinei per me il mio personale percorso di crescita individuale, in altri termini, che qualcun altro viva al posto mio.