THE LEGEND OF ZELDA: L’UNIVERSO IN UN GUSCIO DI NOCE
The Legend of Zelda, il primo capitolo della serie uscito nel 1986 per NES e diretto da Shigeru Miyamoto, inizia con questa schermata:
Tre strade si aprono davanti a Link. Tre strade si aprono davanti al giocatore. Più una piccola porta che dà su una caverna all’interno della quale un vecchio saggio ci offre una spada per affrontare i pericoli del mondo.
The Legend of Zelda è comunemente riconosciuto come un videogioco open world. Eppure fin dalla prima stanza esplorabile, ha delle caratteristiche nettamente diverse da quelle a cui siamo abituati a pensare quando parliamo di open world. Solo tre direzioni percorribili, una delle quali (quella a sinistra) si rivelerà presto un vicolo cieco se imboccata a partire dalla prima schermata. Due direzioni, quindi. Nord. Est. Anche senza risposta bisogna comunque proseguire.
Come potete vedere dalla mappa completa del gioco qui sopra, anche solo a partire da quelle due direzioni, si creano una grande quantità di possibili ramificazioni. Se partendo dalla prima schermata si va a nord, ci troveremo in un altra schermata da cui potremo scegliere se andare a est o a ovest. Se andiamo a est avremo altre tre opzioni disponibili e ogni scelta produrrà altre scelte a sua volta. Se andiamo a ovest potremo proseguire ancora più a ovest o deviare verso nord. E così via.
L’open world del primo Zelda ci permette di andare dove vogliamo, all’interno del mondo che propone, senza proporre ostacoli che non siano superabili armati della semplice spada di legno che brandiamo fin dall’inizio. Il mondo di gioco si sviluppa per la maggior parte in orizzontale, attraverso un intrico di strade labirintiche che conducono a dei dungeon sotterranei. In totale i dungeon sono 9 e tutti tranne due sono esplorabili, anche se non necessariamente completabili, fin dal primo minuto di gioco. Ci sono solo due località accessibili ottenendo prima due oggetti specifici: il dungeon Level-4 e il Level-7. Tutti gli altri, pur essendo numerati in modo da suggerire il grado di difficoltà e l’ordine consigliato, sono esplorabili. Molti dei dungeon, tuttavia, pur essendo esplorabili, spesso richiedono degli oggetti che è necessario ottenere in altri dungeon per essere completati, come la scala.
La mappa del gioco è composta da 17x8 schermate, 136 schermate, eppure riesce a creare un senso di spaesamento e di avventura, di ignoto e scoperta che la maggior parte degli open world venuti dopo, non sono riusciti a replicare. L’open world di Zelda funziona perché produce una illusione di vastità grazie ai suoi intrichi, piuttosto che grazie alla grande mole nella giustapposizione di ambientazioni. Analizzare il level design del primo capitolo della saga ci aiuta a capire che l’open world, prima ancora di designare dei videogiochi con delle mappe molto grandi, è una meccanica.
METROID: ALLA CONQUISTA DEL MONDO
Nello stesso anno in cui usciva il primo capitolo di Zelda, Nintendo fece uscire un altro gioco rivoluzionario: Metroid, prodotto da Gunpei Yokoi, altro grande nome della storia Nintendo accanto a quello di Miyamoto.
Anche Metroid era animato da un’idea di design che puntava a creare nel giocatore un senso di scoperta, ignoto e avventura eplorativa, ma sceglieva di non patinare quella esperienza in un mondo fiabesco, ma in una fredda ambientazione spaziale. E questa differenza di atmosfere esigeva una struttura diversa da quella totalmente aperta di Zelda. Laddove il mondo di Zelda era tutto esplorabile fin dall’inizio, quello di Metroid era pieno di piccoli ostacoli ambientali superabili solo ottenendo certe abilità specifiche. Questa differenza può sembrare di poco conto ma crea due esperienze che risultano molto diverse: la filosofia di Metroid è quella del dominio di un mondo prima alieno grazie ai propri sforzi, un’ambizione che nasceva dalla sensazione di oppressione dei piccoli cunicoli in cui si muoveva l’avatar; il mondo di Zelda invece non era da conquistare, ma solo da esplorare, perché offerto fin da subito al giocatore nella sua interezza. L’attrito di Zelda era inferiore rispetto a quello sentito dal giocatore in Metroid. Questo forse rendeva il mondo di Zelda più pulsante di vita, perché indifferente al giocatore, laddove il mondo di Metroid è un ingranaggio programmato per essere assemblato pezzo per pezzo dal giocatore. La conquista in Metroid non è l’avventura di Link, pur con tutti i punti di contatto che i due condividono. Metroid decide di sviluppare un intero mondo su un’idea di design che in Zelda è solo abbozzata, ovvero la meccanica dei lock ambientali che possono essere superati solo esplorando il mondo di gioco. In questo il gameplay di Metroid è ancora meno lineare di quello di Zelda, e questo lo rendeva una versione particolare di open world. Un mondo aperto ma non del tutto. Solo quel tanto che basta a far intuire fin da subito la mole di impegno che serve a dominarlo.
SUPER MARIO 64: L’INVENZIONE DELLA VERTICALITÀ
Un altro passo innovativo per quanto riguarda lo sviluppo dell’idea di design dell’open world è offerto da un altro gioco Nintendo: Super Mario 64, del 1996, dieci anni dopo le prime sperimentazioni di enorme successo commerciale che Nintendo aveva proposto su NES. Super Mario 64 è stato il primo gioco a implementare il 3D in modo che fosse cruciale per l’esplorazione, così che quello che prima era open solo in orizzontale, divenne tale anche in verticalità. Tuttavia, nonostante Super Mario 64 aggiungesse verticalità alla costruzione del mondo di gioco, è molto meno open world del primo Zelda o del primo Metroid, ed è costretto in una costruzione spaziale a livelli, che sono per lo più separati tra loro, e accessibili attraverso un hub centrale. A essere aperto, in Mario 64, è il movimento (fatto che lo rese davvero unico e rivoluzionario) piuttosto che la costruzione spaziale del mondo, ma grazie ad esso il medium scoprì la possibilità di costruire mondi da esplorare in verticale.
GTA III: GRANDE È MEGLIO
Il 23 ottobre 2001 esce Grand Theft Auto III, primo capitolo in 3D della serie destinato, purtroppo, a diventare il modello di riferimento per lo sviluppo di design basati sull’idea dell’open world. GTA III offriva una grande mappa di gioco divisa in tre parti, solo la prima delle quali era esplorabile fin dalle prime fasi di gioco. Quello che offriva il level design di GTA III era la vastità, ma al contrario di quella suggerita sottilmente da The Legend of Zelda attraverso un labirinto interconnesso che riusciva a farti perdere in un lembo piccolissimo di terra, il gioco della Rockstar usava una brutalità di design tutta americana: GTA III era grosso. E tanto bastò a renderlo un successo enorme. A questa idea di design si unì inoltre un’altra impostazione poi divenuta classica negli open world: la separazione tra la storia principale e l’esplorazione. Seguire la storia principale di GTA III equivaleva a rimanere grossomodo in un corridoio lineare, a livello narrativo e spaziale. Ma accanto alla linearità della missione principale, il gioco offriva una serie di missioni secondarie, o semplicemente la possibilità di andare in giro per la mappa senza mandare avanti la storia. A ben guardare, questa è stata l’idea di design vincente di Rockstar Games, realizzata in modo definitivo, per scala dell’offerta del cazzeggio non narrativo, in GTA V, uscito nel 2013. Pur essendo stato un successo commerciale, tuttavia, la filosofia di design di GTA III rappresenta un impoverimento dell’ambizione dei primi open world, che facevano della meccanica open world il motivo portante della loro poetica esplorativa e veicolavano la loro narrativa, atmosfera e ritmo, a partire dalla loro conformazione topografica.
La separazione tra level design e gli altri elementi del gioco sancisce un impoverimento di entrambi: il mondo di gioco di GTA III diventa un contenitore, il cui unico obiettivo è impressionare per la sua estensione. Estensione che diventa rilevante solo per garantire una grande quantità di ore da spendere nel gioco più che per un motivo di design significativo.
Questa stessa filosofia di design è alla base della serie Assassin’s Creed, e di tutti i suoi successori spirituali, che altro non sono che successori spirituali di GTA III, da Horizon Zero Dawn e il suo sequel ai recenti videogiochi della serie di Spider-Man per PlayStation passando per gli acclamati Red Dead Redemption 1 e 2.
Nessuno di questi giochi sfrutta il senso di un’open world per creare la sua atmosfera, per dettare il passo dell’esplorazione in modo che quel ritmo chiarifichi significati che rimano con la narrativa o il senso generale dell’opera, limitandosi a sviluppare enormi mappe in orizzontale che poi canalizzano l’azione in un corridoio nel momento in cui si segue la missione principale.
IL CASO DEATH STRANDING
Un’eccezione a questo modello potrebbe essere rappresentata da Death Stranding, creato da Hideo Kojima, che solo superficialmente potrebbe sembrar aderire ai canoni dell’open world piatto degli ultimi decenni. Death Stranding problematizza, al contrario, attraverso il suo level design, il suo stesso essere un corridoio verso un obiettivo finale, visto che costruisce la sua narrazione proprio intorno a questa meccanica. In Death Stranding il vero nemico è l’open world. L’apertura del mondo di gioco e la sua vastità vengono finalmente utilizzate come strategie della retorica del gioco perché sono funzionali all’implementazione di alcune meccaniche, a cascata: se il mondo non fosse aperto, ad esempio, risulterebbe facile e noioso consegnare pacchi, e verrebbe meno il processo di scoperta del percorso migliore da far seguire a Sam. Il mondo accidentato e scosceso di Death Staranding e la libertà di movimento offerte rende problematico e sfidante trovare la traiettoria migliore. Inoltre, le missioni secondarie, che per mancanza di spessore sono il principale problema della maggior parte degli open world, in Death Stranding rafforzano la necessità progettuale di un modo aperto, perché concorrono a creare il senso generale della narrazione che trova la sua ragion d’essere nel ri-collegamento dell’America a opera di un corriere.
L’idea di fondo dell’open world inaugurato da GTA III, possiamo quindi sintetizzarla nella massima per cui la vastità diventa un fine in sé. E infatti questa filosofia di progettazione spaziale ha creato sempre di più una aspettativa e una richiesta nei giocatori di enormi mondi dove trascorrere tantissime ore. Promessa esaudita, per vocazione, dai videogiochi procedurali, quelli cioè che non hanno una mappa precisa ma solo le regole di una generazione potenzialmente infinita di ambienti virtuali. Il caso di No Man’s Sky dove si possono esplorare 8.446.744.073.709.551.616 pianeti o di Minecraft.
Dei primi 10 videogiochi più venduti usciti negli ultimi 20 anni, 4 sono open world che puntano sulla enorme mole di orizzontalità della loro mappa di gioco: abbiamo Minecraft, GTA V1, Red Dead Redempion 2 e The Witcher 3.
Eppure a fronte dello strapotere commerciale di questo modello e accanto a questa tendenza semplificativa, l’open world non ha mai smesso di essere usato come meccanica significativa ed è al centro del design di alcuni dei videogiochi più ispirati della storia del medium anche in anni recenti. In favore di questa storia, minore dal punto di vista commerciale ma decisiva a livello di sperimentazione e profondità del medium, è nato questo articolo.
SHADOW OF THE COLOSSUS: OPEN WORLD NEGATIVO
Nel 2005 esce Shadow of the Colossus, diretto da Fumito Ueda. Pur non essendo dotato di un level design troppo raffinato per interconnessione e verticalità, il gioco di Ueda usa in modo unico la meccanica dell’open world, rendendo significativa la sua totale piattezza, anzi, svuotando il mondo di gioco in tutta la sua estensione di missioni, oggetti o personaggi. L’open world di SotC è ottusamente silenzioso, una landa desolata di vecchi relitti. Ueda decide di non usare l’interconnessione e l’apertura per creare un senso di avventura e di scoperta di un mondo ignoto, come fanno Zelda e Metroid, ma usa l’apertura orizzontale del mondo per progettare un’esperienza desolante, di solitudine impietosa, senza sollievo e profondamente tragica, e in qualche modo vana anche a causa del silenzio che la accompagna. Allo stesso tempo sacro e indifferente. La successione dei colossi obbligata rende ancora più desolante vagare per un mondo dove neppure i colossi si animano se non nel momento in cui saranno destinati a morire sotto i nostri colpi. La successione è dunque lineare, ma SotC ha avuto il merito di mostrare a tutti in quanti modi diversi, sia rispetto a GTA che rispetto a Zelda, si potesse usare l’open world per creare effetti retorici nel medium.
DARK SOULS: GIRARE IN TONDO
Pensate a un gioco che riuscisse a far coesistere in modo coerente il senso di apertura esplorativa e di libertà del primo Zelda, l’interconnessione basata sui lock ambientali del primo Metroid, la verticalità tridimensionale suggerita da Super Mario 64 e il silenzio decadente di Shadow of the Colossus.
Il 22 settembre 2011 esce in Giappone Dark Souls, diretto da Hidetaka Miyazaki. In questo videogioco, subito dopo aver lasciato la prima zona tutorial ed essere arrivati a Firelink Shire, ti dirigevi verso il Borgo dei Non-Morti, potevi combattere contro il Demone Toro, scampare a malapena dall’essere arrostito da un drago su un ponte, trovare la strada per la Chiesa dei Non-Morti, affrontare un cavaliere gigante nella Chiesa, prendere un ascensore, e… ritornare a Firelink Shire.2 Avevi girato in tondo. E allo stesso tempo eri andato avanti.
Non capitava tutti i giorni di iniziare un videogioco del genere.
Per la prima volta dopo quasi 30 anni, un videogioco che non fosse della serie Zelda riprendeva l’idea di design che giustificava l’open world del primo Zelda e la applicava a un mondo tetro e oscuro, dove l’avventuriero della fiaba della serie Nintendo veniva sostituito da un cavaliere non-morto in un mondo medievale in rovina. Nelle sue fasi iniziali Dark Souls riesce a suggerire il senso di apertura di The Legend of Zelda, offrendo varie strade da intraprendere, ma al contrario del gioco per NES del 1986, sviluppa un’interconnessione soprattutto verticale, offrendo allo stesso tempo una serie di lock, porte chiuse, scale arrugginite, nebbie sbloccabili solo con oggetti specifici, che costringono al backtracking tipico di un metroidvania.
Il suo level design3 è espressione massima di una filosofia di gioco che vede nella struttura spaziale del gioco un motivo fondamentale per veicolarne la poetica. E infatti Dark Souls crea un senso di claustrofobica oppressione e allo stesso tempo di conquista esplorativa unico, dimostrando che anche un mondo relativamente piccolo può suggerire il senso di vastità se il level design è gestito in modo intelligente. La struttura circolare su cui si sviluppa Lordran e che instrada il gameplay in una vana ricorsività, fa rima con la narrativa del gioco pervaso da una ironia disillusa per i vani orizzonti di gloria degli esseri umani. Un level design gloriosamente ripiegato su sé stesso serve alla causa della sua stessa denuncia.
Anche se l’apertura del mondo di Dark Souls e la sua straordinaria interconnessione verticale sono concentrate soprattutto nella prima metà del gioco, il level design di Dark Souls ha costituito un punto di arrivo tuttora superato forse solo dall’ultimo videogioco della nostra storia.
THE LEGEND OF ZELDA: BREATH OF THE WILD: …E SOLO ALLORA CONOSCEREMO QUEL LUOGO
The Legend of Zelda: Breath of the Wild, uscito nel 2017, inizia con questa schermata.4
Un mondo vasto e per lo più piatto, visto da qui. Potrebbe quasi sembrare l’ennesimo open world in stile GTA III. Non c’è interconnessione verticale particolarmente ispirata. C’è una missione principale e un grande open world attorno. Cos’è che lo rende speciale, allora?
Il fatto che il senso di Zelda: Breath of the Wild, la sua vera missione principale, è la fiabesca avventura nella natura selvaggia, l’esplorazione di un mondo enorme ma allo stesso tempo pieno di segreti. La missione principale di BotW è il suo open world. Ma quali strategie implementa per riuscirci? Ciò che rende unico questo panorama, quando lo si guarda per la prima volta, non si può ancora saperlo: ogni piccola altura, ogni dirupo, canyon, monte innevato, albero, pinnacolo, obelisco, del gioco, può essere scalato. Molto più della paravela, pur essendo questa scenicamente inarrivabile, a rendere unico questo gioco è la scalata, che più di qualunque altro gioco fa sentire il giocatore allo stesso tempo così vicino a tutto e enormemente incapace, vista la pochissima stamina con cui iniziamo l’avventura. Ma quella sensazione di avere a disposizione e senza soluzione di continuità un’intero mondo sconosciuto, lo fa risultare vivo grazie alla promessa della scoperta almeno quanto riesce Dark Souls a far risultare vivo il suo mondo attraverso la pericolosità delle sue minacce.
Ma anche questo non basterebbe. Quello che rende unico l’open world di BotW è il motivo che lo rende così diverso dall’open world di Elden Ring a cui spesso è stato, a torto, associato. Ed è un motivo che ha a che fare con un dato estremamente banale: il punto in cui iniziamo l’avventura e la conformazione della mappa. Questa è la mappa di BotW. In giallo ho segnato il punto da cui tutto ha inizio.
Questa invece è la mappa di Elden Ring con l’inizio dell’avventura.
Sembra che il punto di inizio sia situato più o meno nello stesso punto. Ma quello che conta è quello che gli sta attorno. In Elden Ring praticamente nulla. Nel senso che a partire dall’inizio dell’avventura, abbiamo tre grandi direzioni: sud, est o nord. Sud ed Est si rivelano dei vicoli ciechi. Alla fine dei conti possiamo andare solo a nord, immettendoci di fatto in un corridoio. Un enorme corridoio, ma pur sempre un corridoio con una strada obbligata per proseguire. Elden Ring riserva i suoi momenti migliori nei dungeon e in alcune chicche di level design verticale dell’open world5, ma la conformazione generale della sua mappa non trova una giustificazione se non nella vastità. Stiamo parlando comunque di un open world migliore in tutto rispetto ai blockbuster tripla A che dominano la classifica che ho esposto sopra, dall’assenza di un gameplay guidato a un orografia studiata, ma in fin dei conti non così diverso se osserviamo il modo in cui la progressione di gioco è dettata dalla conformazione spaziale. In Elden Ring seguiamo una strada dritta, dopo aver eliminato i vicoli ciechi, molto più marcatamente che in Dark Souls.
In BotW, invece, l’esplorazione non è lineare ma concentrica.6 L’obiettivo finale è raggiungibile da una varietà di punti differenti e non solo uno come in Elden Ring. Questo favorisce una vera valorizzazione della conformazione spaziale del gioco, in cui l’open world non rimane solo una figura retorica posticcia e vuota, ma diventa una meccanica strutturale per veicolare la poetica del gioco, basata su una componente esplorativa anarchica che non segue una linea precisa ma procede in modo circolare, dove tutto è raggiungibile a partire da tutto, dove siamo sempre al centro del mondo e mai al centro del mondo.
La storia degli open world assomiglia a un gioco open world. Ognuno dei giochi di questa piccola storia ha costruito a partire da intuizioni e idee di quelli che l’hanno preceduto. Un videogioco come Breath of the Wild non sarebbe stato possibile senza Dark Souls e Shadow of the Colossus, che a loro volta non sarebbero stati possibili senza il primo capitolo della serie che Dark Souls e SotC stessi hanno contribuito a cambiare. Le grandi opere si chiamano tra loro e cercare le rime tra i loro versi è quello che rende la cultura entusiasmante come l’esplorazione di un foresta incantata o di un castello medievale.
Come aveva capito Aristotele, buona parte del valore estetico di un’opera può essere trovato nel senso di necessità che la collocazione delle sue componenti ispirano le une rispetto alle altre. L’open world è ormai spesso poco saliente nei videogiochi, solo un grosso contenitore per delle piccole storie. Eppure alcuni dei videogiochi che più amo possono essere letti come open world: dal tentativo di ricostruire questo paradosso è nato questo articolo.
Non dobbiamo scordarci però che l’open world è nato e in alcuni casi continua a prosperare non come contenitore ma come meccanica7, innestato così profondamente nella struttura del gioco che sarebbe impossibile pensare che il gioco rimanga lo stesso senza open world. Dobbiamo ricordare che spesso troveremo un vero open world dove non ce lo aspetteremmo, come in Dark Souls, o dove non assomiglia a quello che è poi diventato, come nel primo The Legend of Zelda. E nei casi migliori, potremo sperare di ammirare di nuovo l’altopiano di Hyrule, senza sapere ancora perché quello che stiamo vivendo è qualcosa di grande.
Rispettivamente primo e secondo della lista dei videogiochi più venduti di tutti i tempi in generale.
Sto citando l’apertura del video di Mark Brown (Game Maker’s Toolkit) dal titolo “The World design of Dark Souls | Boss Keys”
Non proprio con questa schermata, ma diciamo che questa è la prima volta che capiamo in che mondo ci muoveremo nel gioco.
Parlo ovviamente delle due civiltà sotterranee.
Suggerisco la lettura di questo articolo:
Suggerisco caldamente la lettura di questo articolo dell’amico Andrea Tornese: