ANTEFATTO
L’autore di Silicon Arcadia, Diego Pozzer, chiudeva il suo articolo su No Man’s Sky con un dubbio:
Come ho cercato di esporre, quindi, in NMS la promessa della scoperta infinita non riesce a concretizzarsi, e viene anche da dire meno male, chè altrimenti si rischierebbe di rimanere incastrati per un tempo indefinito nella fittizia galassia di Sean Murray e soci.
Ad ora non ci è dato sapere se questa limitazione all’utopia della scoperta senza fine sia dovuta a limitazioni di hardware (per quanto sia ragionevole pensare possano aver avuto un ruolo).
Questo articolo tenta di rispondere a questo dubbio: dove si situano i limiti nell’elaborazione dell’infinito?
IL DESIGN DI DARK SOULS: TRA ILLUSIONE E BEFFA
Ogni videogioco parla prima di tutto attraverso il suo ambiente. Il world design, in qualche modo, ci racconta sempre una storia attraverso le strutture in cui si articola.
Il commento del level design di Dark Souls mi permetterà di rispondere alla domanda posta in apertura: dove si pongono i limiti nell’elaborazione dell’infinito? Infatti, nel design ibrido di Dark Souls, a metà tra mondo aperto e rigida successione dei livelli, si realizza un obiettivo quasi paradossale: la percezione dell’infinito esiste, ma solo perché si faccia esperienza del meccanismo della sua illusione prospettica. Dark Souls decostruisce le strategie di costruzione geografica della sua stessa open map.
Lo fa grazie al meccanismo dello shortcut: l’apertura di un passaggio che congiunge due aree che abbiamo esplorato separatamente, ma che in realtà erano contigue. La sensazione di aprire una porta che non si apriva quando l’abbiamo trovata la prima volta, di prendere un ascensore bloccato o di calciare una scala arrugginita ci dà un appagamento e un senso di conquista unici, perché testimonia della nostra fatica nella conquista di un mondo ostile e resistente ad essere controllato dal player. Lo shortcut ci rivela che invece di allontanarci dal punto di partenza, abbiamo girato in tondo. Ma solo con quel giro conosciamo davvero il punto di partenza. La vastità del mondo, dunque, è illusoria, ma la sua esperienza è estremamente dilatata. Esattamente come in un quadro di Robert Hubert non c’è vera profondità ma solo l’illusione di essa.
Quindi, laddove nell’open world l’infinito non era mai realizzato (per definizione non può realizzarsi l’infinito, altrimenti sarebbe finito), ma sempre e solo intuito attraverso la continua posticipazione della fine, e nel gioco lineare veniva espunto a priori dall’esperienza, nel gioco ibrido riusciamo ad avere i benefici della sensazione di enormità dell’open world uniti ai benefici della sensazione di densità dei particolari tipica del gioco narrativo chiuso, e quindi ad avere la stessa percezione di infinito dell’open world, senza l’espediente della continua differita della fine.
Dark Souls è un “suggerimento” dell vastità, non la sua realizzazione. E quindi tematizza l’impossibilità di una sua possibile realizzazione. La scelta stilistica che anima il level design di Dark Souls potrebbe racchiudersi nella massima:
“Anche l’infinito deve essere raccontato”
In questo slancio di “storicizzazione” dell’infinito, esso deve per forza essere naturalizzato, concretizzato, sostanziato, imbrigliato entro certi limiti. Così l’infinito rimane impigliato nell’architettura circolare, negli intrichi di Lordran. Il capolavoro di Miyazaki, tematizzando l’infinito (o meglio, tematizzando la sua percezione illusoria), ci dimostra che non possiamo fuggire dal codice perché anche l’atto della fuga non può che realizzarsi nel codice stesso. Non si scappa. Siamo costretti a provare la fatica del limite, l’attrito della morte e del fallimento. Pensate, su tutte le aree, alla Fortezza di Sen, al cui interno non esistono Falò. Un luogo pieno di trappole mortali, il vero test per chi vuole arrivare ad Anor Londo, la città degli dei. L’oscurità minacciosa e opprimente della Fortezza non poteva sposarsi con la presenza di checkpoint. La rarefazione e il sollievo possono arrivare solo aver trattenuto il fiato per tutto il livello, al cui termine, c’è il vero climax: la luce di Anor Londo e il la luce del falò.
Ma all’interno dei limiti del codice si può sia costruire la sensazione di ignoto e di esplorazione appagante (ottenuta grazie al reward dell’oggetto raro che racconta un pezzo della storia del mondo di gioco), sia la sensazione di una direzione narrativa che non è quasi mai diluita tra quest secondarie inutili. Ogni evento ha il carattere della necessità. E ogni necessità reca l’intuizione dell’infinita catena di eventi che l’ha creata. L’incedere è rigido, anche se noi percepiamo una illusoria libertà di movimento. In questo, level design e narrativa fanno tutt’uno: Dark Souls vuole sempre suscitare la sensazione di beffa e il suo level design è sempre allo stesso tempo sia beffardo che meraviglioso, perché dimostra incredibile raffinatezza nel saperci illudere.
Questo trompe-l’oeil dell’infinito, che è commentato in maniera iconica da questo brano di Camus, è il senso filosofico del level design di Dark Souls:
“Vi è un certo rapporto tra l’esperienza complessiva di un artista e l’opera che la riflette (…) Il rapporto è cattivo, quando l’opera pretende di presentare l’intera esperienza entro i fronzoli di una letteratura esplicativa; mentre è buono, quando l’opera è soltanto un brano intagliato nell’esperienza, una sfaccettatura di diamante, in cui si compendia la luce interna, senza limitazione. Nel primo caso si ha un sovraccarico e pretensione di eterno; nel secondo, un’opera feconda, grazie a tutto un sottinteso di esperienze, di cui si indovina la ricchezza.”
(A. Camus, Il mito di Sisifo, p. 95)
Non è corretto dire che Dark Souls realizzi l’infinito, ma di certo realizza un monumento al tentativo (fallimentare) di imbrigliarlo. Il level design di Dark Souls ci racconta della beffa di voler raccontare tutto, di voler trascendere i limiti, di voler andare sempre oltre. Questo mi porta all’ultima parte delle mie riflessioni.
USCIRE DAL SISTEMA
Achille: Riflettendoci, vedo il dilemma. Se un qualsiasi giradischi, diciamo il Giradischi X, è sufficientemente ad alta fedeltà, allora, quando tenta di suonare la canzone “Non posso essere suonata dal Giradischi X”, esso produrrà proprio quelle vibrazioni che causeranno la sua rottura…così non è Perfetto. D’altra parte, l’unico modo per aggirare l’ostacolo è che il giradischi sia a bassa fedeltà, e questa, già di per sé, costituisce un’imperfezione. Sembra allora che tutti i giradischi siano vulnerabili per l’una o per l’altra di queste due debolezze; di conseguenza, tutti i giradischi sono difettosi.
Tartaruga: Ottima deduzione, Achille, ma non capisco perché lei li chiami “difettosi”. È semplicemente un fatto inerente ai giradischi questo loro limite, per cui essi non fanno tutto quello che si desidera. Se un difetto c’è, non sta in LORO, ma nella nostra aspettativa di ciò che dovrebbero essere in grado di compiere.
(D. Hofstadter, Godel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante)
Per la sua natura di ibrido, che cerca di mettere insieme percezione dell’enormità di un intero mondo e rigida necessità narrativa e di design, il level design di Dark Souls è una indiretta riflessione sul tragico, come lo è anche il suo gameplay e la sua narrativa, che nel gioco fanno tutt’uno e si compenetrano in modo magistrale.
Il design di DS è la solidificazione videoludica dell’eterna lotta tra limite e potenza.
Il senso del tragico è funzione della consapevolezza del limite a cui si accompagna un desiderio che non può accettare quello stesso limite. Tragico è Faust, “troppo vecchio per giocare soltanto e troppo giovane per non desiderare”. O, per usare una citazione più pop, il tragico si ha quando una forza irrefrenabile, incontra un ostacolo inamovibile. Il senso del tragico, e gli esiti di angoscia e disperazione a cui ci conduce potrebbero essere racchiusi nella massima del critico cinematografico di 8 e mezzo, che alla fine del film dice al protagonista che “se non si può avere il tutto, il nulla è la vera perfezione”. Gli esiti tragici dell’esistenza nascono dalla discrasia tra la realtà e il linguaggio, nel quale le nostre aspirazioni crescono in modo incontrollato. Il tragico non è un carattere della realtà ma appartiene al modo in cui, semioticamente, ci rapportiamo ad essa.
Oltre ad essere un riflessione sul tragico, Dark Souls è inevitabilmente una riflessione sullo Zen. Ed è in quella frase del critico che vediamo come tragicità e Zen siano due facce della stessa medaglia. Lo Zen, altro non è che una nostalgia di infinito che crede di averla risolta nel suo opposto: il nulla. E laddove il tragico Edipo si disperava accecandosi, il monaco Zen rimane composto e impassibile. Ma entrambi fronteggiano lo stesso dramma e reagiscono alla stessa aspirazione. L’angoscia del desiderio di uscire dal sistema1 : tragico è chi continua a disperarsi per aver scoperto la follia delle sue aspirazioni; zen è chi si illude di essere riuscito a vincerle per sempre. Il design di Dark Souls suggerisce che esiste una terza via, oltre la disperazione e l’illusione.
La domanda che ci si pone è: si può uscire dal sistema? Possiamo trascendere noi stessi? Possiamo vincere i nostri limiti? E la risposta che emerge in Dark Souls segue una via diversa sia rispetto alla disperazione tragica che rispetto alla tranquillità illusoria dello zen. Non possiamo far altro che rimanere nel sistema, avvinti al linguaggio, al codice, ai limiti del mondo, ma possiamo sguazzare nello stagno profondo di quel codice trovandovi abbastanza, ancorché non tutto. Il punto è farci bastare l’abbastanza. Convivere con i propri limiti, ben consapevoli che solo grazie ad essi, riusciamo a elaborare messaggi pregnanti.
La comprensibilità passa per la strettoia della sottrazione. Difronte a un blocco di marmo potremmo rimanere immobili per l’imbarazzo delle infinite forme che vi vediamo possibili. Ma l’artista inizia a togliere. Less is more. Così scopriamo che non è solo la lore e la narrativa di Dark Souls a seguire questo principio, ma anche il suo level design. Il principio di ogni atto poetico: dire il maggior numero di cose, nello spazio più piccolo possibile.
Dark Souls è animato dalla stessa idea che rende possibile la scultura del blocco di marmo, perché racconta l’infinito ma è consapevole della folle impresa irrealizzabile di tale racconto: la tensione tra inesprimibile ed espresso, tra qualcosa che, da un lato si afferma come inesprimibile ma che in quello stesso momento, proprio perché si sta raccontando, smentisce la sua insondabilità. E così, in forma negativa, Dark Souls costruisce un monumento all’illusione umana di poter uscire dal sistema, disegna l’ombra di una caduta, rende trionfale un fallimento, facendoci girare in tondo nel solido 3D, senza via d’uscita, punendo la nostra tracotanza con la stessa impassibilità con cui punisce la nostra paura. Senza mai darci l’illusione di essere usciti dal sistema. Condannandoci all’esercizio dell’accettazione del limite.
Chi si dispera fallisce in Dark Souls. Chi si illude, fallisce in Dark Souls. Il suo level design ci insegna la fatica del pragmatismo, di una disponibilità all’apprendimento e alla scoperta dei meccanismi del mondo di gioco, all’umiltà dei propri limiti e al coraggio dell’uso delle proprie risorse. Quando abbiamo paura e siamo disperati moriamo, e lo stesso accade quando ci illudiamo di essere in controllo. Il level design di Dark Souls ci insegna che il metodo di apprendimento è più importante della cosa appresa. Rende l’errore un metodo per raggiungere il successo. Ci insegna a desiderare la morte, ci sbatte in faccia i limiti del suo mondo e del suo gameplay (qualcuno ha detto stamina?). Il design di Dark Souls, frustrante nella sua beffarda circolarità, è una critica dell’immortalità e dell’infinito.
L’infinito deve essere raccontato. Ma l’atto del suo racconto coincide con la sua dissoluzione. Dark Souls lo neutralizza perché decide non di cristallizzarlo ma di cristallizzare una strategia per suscitarne la sensazione e rivelarne l’illusorietà. Ed è in questa dissoluzione che si consuma il senso del racconto. Rimane così solo lo scheletro della nostra aspirazione. La storia dell’arte non è che la storia di tali fossili, di questi desideri morti. É la storia di un deposito abbandonato di scale da buttare. Di segnali che ormai non indicano più niente. E che per questo indicano tutto: perché indicano la loro inutilità. Segni vuoti che funzionano come matrice di tutti i segni possibili.
Eppure, anche senza risposte bisogna raccontare. Costruire scale che altri getteranno via. L’arte è la somma di quelle scale abbandonate. Un monumento diroccato e splendido. Una Babele deforme e sbilenca, che non fa altro che continuare a raccontare la sua imperfezione affollata di lingue. Solo accettando la nostra unica e babelica possibilità possiamo trovare la pace. Sospingere il nostro masso, come moderni Sisifo, lungo il pendio della Torre, sapendo che ciò che è inevitabile non può deprimerci.
La perfezione non è avere quello che si desidera, ma desiderare quello che si ha. Non dunque dissolvere il desiderio, come lo zen, né appagarlo come i tragici, ma sublimarlo nella scoperta e nell’ascolto della realtà. Questo è forse il senso del level design di Dark Souls. Non è tutto, ma forse, è abbastanza.
“O anima mia, non aspirare a una vita immortale
ma esaurisci il campo delle tue possibilità.”
(Pindaro, III Pitica)
Per approfondire questi temi consiglio la lettura di Godel, Escher, Bach, di Douglas Hofstadter.