Kentucky Route Zero e il Modernismo
Ovvero, come un'opera mette in questione il suo stesso medium
Kentucky Route Zero è un gioco di crisi: non solo quella economica del contesto in cui è ambientata la storia, né quella spirituale dei suoi personaggi. La crisi messa in scena da questo capolavoro del videogioco è innanzi tutto una crisi artistica: una crisi dell’arte e della possibilità di fare arte. Il tema della crisi è al centro del concetto – da un lato artistico e dall’altro filosofico1 – di “modernismo”.
Il modernismo
Possiamo introdurre il concetto di modernismo a partire dalla descrizione che ne dà Aldo Giorgio Gargani parlando di Crisi della ragione (il Saggiatore, 1980). Il modernismo sarebbe la messa in questione dell’ideale della Ragione per come esso è stato elaborato in quel periodo di rinnovamento intellettuale chiamato “modernità”, che, a partire dal XVI e XVII secolo, segna la fine del mondo “antico” e “medievale”. Si tratta di un processo caratterizzato dall’emergere di una concezione scientifica del mondo accompagnata da giustificazioni filosofiche dell’esperienza e della razionalità. Nonostante le varie contraddizioni interne2, possiamo individuare nella modernità una concezione della ragione come armonia del cosmo – per quanto riguarda la conoscenza del mondo –, e come norma di disciplina – per quanto riguarda la morale e il comportamento –. Nonostante l’evidente disordine dei vari comportamenti individuali (quello che porterà Hobbes a concepire lo “stato di natura” come uno stato di guerra di tutti contro tutti), rimane sempre l’idea di uno stato superiore armonioso (per rimanere nel contesto hobbesiano, è proprio la razionalità di quegli stessi individui altrimenti bestiali che li porterà a riconoscere la necessità di un patto comune, un accordo che istituisca il Leviatano).
Questo ideale della ragione come sistema perfetto e onnicomprensivo sarà identificato, nel corso della modernità, come l’unica cosa vera e importante:
Tutto ciò che è specifico, individuale era pertanto degradato rispetto alle terse strutture razionali di un ordine centrale, esclusivo e invariante, entro il quale è da sempre codificato e precostituito il gioco di tutte le possibilità che competono alle cose, alla natura cosi come ai movimenti del nostro pensiero. In questi termini, la riflessione razionale doveva esplicitare e rendere trasparente alla coscienza degli uomini un processo ideale già acquisito che di gran lunga la sorpassava.
Aldo Giorgio Gargani, Crisi della Ragione.
Sebbene la modernità emerga come critica e revisione di un intero sistema di regole e condotte che ha poi denominato “medievale”, sistema riconosciuto come insufficiente a coprire nuovi territori della conoscenza o come costituito da immagini fittizie e ingannevoli, la modernità stessa, con il suo ideale di razionalità, sarà successivamente riconosciuta come antiquata e sclerotizzata. La razionalità classica si è infatti presentata per diversi secoli come naturale e a priori, responsabile di ogni possibilità cognitiva e di ogni possibilità logica. Dall’inizio del XX secolo, tuttavia, questo ideale viene messo in questione.
Quello stesso atteggiamento che in un primo momento portava a riconoscere come antiquate le strutture di pensiero ereditate (di cui la nascita della scienza e la rivoluzione francese sono le manifestazioni più esplicite), assumerà così una funzione fondamentalmente conservatrice: riconducendo tutto a un ordine razionale a priori, si trattiene e impedisce ogni nuovo movimento di pensiero. La Fenomenologia dello Spirito di Hegel rappresenta un chiaro esempio di questa visione della razionalità come comprensione totale di tutta la conoscenza. Per riprendere la formulazione di Gargani, «si fa violenza ai fatti recalcitranti imponendo a essi rappresentazioni artificiose» (Crisi della Ragione p.19).
Il modernismo è la crisi di questa concezione della Ragione caratteristica della modernità. Nei primi anni del ‘900, infatti, da un lato la teoria della relatività e la meccanica quantistica mettono in crisi l’assolutezza dello spazio e del tempo e la possibilità di una prevedibilità assoluta dei fenomeni. Dall’altro, la comparsa e l’affermazione di nuovi bisogni e comportamenti alternativi mette in crisi l’assolutezza dei concetti di “giusto” e “dovere”, non più declinabili da una razionalità a priori, indipendente da ogni contesto particolare.
Il motore che spiega questo passaggio dai modelli disciplinanti alla mobilità interna delle pratiche intellettuali è la condizione di blocco in cui rimaniamo impigliati. La sublimazione della ragione sotto forma di modelli che si presentano come autosufficienti produce insoddisfazione; il movimento del pensiero si ferma, si inceppa; l’esperienza è meccanizzata, diventa ripetitiva e ossessiva. Registriamo qui un rovesciamento importante. La purezza dell’ideale normativo, di come si deve procedere, di ciò che conta come la mossa ulteriore in una certa attività intellettuale (la mossa corretta, appropriata, che fa parte di quell’attività o che la innova in modi che creano una continuità magari inattesa), si rovescia nella meccanizzazione di tali pratiche, in meccanismi ripetitivi e ossessivi: le pratiche perdono mobilità, vita e spontaneità.
Piergiorgio Donatelli, Il lato ordinario della vita, pp.9-10.
In altri termini, la crisi modernista della ragione emerge quando si inizia a intravedere, all’interno del vecchio ordine razionale, la possibilità di figure alternative. Si ha, cioè, l’impressione che ci sia un sapere non ancora esplicitato o non pienamente riconosciuto al di là di quello di cui si disponeva.
Ma questa crisi non è soltanto uno scetticismo, o, come vorrebbero alcuni nostalgici del vecchio ordine, un “nichilismo”. Al contrario, parliamo di crisi perché ci sentiamo pronti a estendere le regole, a procedere secondo nuove proiezioni che non sono il dispiegamento di un ordine logico aprioristico ma di una creatività nel nostro modo di vivere. Le opere dei modernisti austriaci, come Robert Musil, Arthur Schnietzler e Karl Kraus, ma anche le osservazioni di Freud e Wittgenstein, mostrano proprio l’impossibilità di continuare la tradizione umanistica: le parole, le convenzioni, i divieti, le norme vengono meno, sono superfici che possono essere gettate via facilmente. La cultura modernista cerca allora una sincerità, una descrizione veritiera della vita, al di là delle sovrastrutture etiche, estetiche e religiose. Al super-ordine imposto dalla ragione al mondo, il modernismo contrappone una molteplicità dei fatti e delle forme di vita.
Nell’arte, questa crisi si manifesta per esempio nell’astrattismo in pittura, nelle innovazioni letterarie di autori come Proust e Joyce, nella musica dodecafonica e atonale, nel montaggio cinematografico e nell’architettura funzionalista e minimalista. Ciò che accomuna questi vari movimenti artistici è innanzi tutto la consapevolezza della storia e delle tradizioni artistiche, le quali vengono rigettate e criticate attraverso nuovi impieghi del medium in questione, che fanno così emergere le condizioni di possibilità stesse dell’arte.
L’arte modernista è innanzi tutto una domanda sulle condizioni dell’arte, su cosa chiamiamo arte e su cosa conta come opera d’arte. Opere come la Fontaine di Duchamp, i quadri di Mondrian o le musiche di Schoenberg e Stravinsky, a differenza delle sculture, pitture e composizioni classiche, pongono la questione se quella specifica opera sia effettivamente una scultura, una pittura o una composizione musicale. In questo senso, l’opera d’arte modernista è un’opera che riguarda l’arte stessa, le sue condizioni.
Ciò che intendo sostenere è che Kentucky Route Zero può essere visto come un’opera modernista in quanto pone la questione delle possibilità del suo medium. In un altro articolo, scrivevo che un videogioco non è solamente una superficie sulla quale proiettare un pensiero già precostituito, ma è anzi esso stesso un pensiero. Ecco, KR0 è un pensiero, una riflessione, sul medium videoludico.
Questo per due motivi diversi: innanzi tutto, la storia narrata è ricca di riferimenti a produzioni artistiche e comunicative, per la maggior parte fallimentari, che mostrano la creatività come una capacità sempre soggetta a crisi e quindi l’arte come sempre in questione. In questo senso, KR0 è una riflessione sulla creatività. Ma, in secondo luogo, l’opera è di per sé una ricerca sui limiti e sulle possibilità della sua stessa produzione. È un’opera che pone la domanda su cosa sia un videogioco, che mostra, creandole, le possibilità del medium videoludico. Le possibilità, infatti, non sono date a priori: sono le istanze concrete, le singole opere, a definire i limiti del medium. Il “medium” non è un’entità a sé stante, definibile indipendentemente dal modo in cui viene utilizzato: al contrario, «un medium è qualcosa attraverso il quale qualcosa di specifico viene fatto o detto in certi modi particolari»3.
Kentucky Route Zero pone quindi la domanda su cosa sia l’arte in due maniere: una esplicita, narrando storie di artisti; e una implicita, affermandosi esso stesso come opera.
L’arte nel gioco
Per quanto riguarda il primo aspetto, KR0 presenta più volte situazioni in cui qualcuno produce, o cerca di produrre, un’opera d’arte. Dalla musica di Junebug e Johnny alle opere esposte nella retrospettiva di Lula Chamberlain; dalle canzoni folk al mondo virtuale di Xanadu. L’arte, e in generale la creatività, è vista in KR0 come qualcosa che è sempre in crisi, sempre soggetta a fallimento.
La vulnerabilità delle nostre forme espressive, del nostro modo di dare senso al mondo, delle nostre vite in generale, è un tema tipicamente modernista. La situazione dell’arte modernista è proprio quella in cui non è più chiaro cosa conti come arte e cosa no: o meglio, è abbastanza chiaro che un certo oggetto in un museo, per esempio, sia un’opera d’arte, ma non è chiaro perché. Nel modernismo, l’arte ha perso la relazione naturale con la sua storia, e deve essere costantemente reinventata ma senza maestri da seguire o esempi da copiare: è compito dell’artista produrre qualcosa di nuovo a partire dalla tradizione nella quale si è formato ma dalla quale si vuole emancipare.
Questo si vede particolarmente nell’opera teatrale rappresentata nell’intramezzo The Entertainment: si tratta di un’opera teatrale ambigua, “un’audace produzione studentesca”, nella quale i rapporti tra autore e attori, personaggi e pubblico si confondono. Come recitano gli stessi “appunti del regista”: « Il copione originale di Lem Doolittle de “La resa dei conti” non ha quasi nessuna istruzione esplicita della sceneggiatura. Dai saggi e dalle lettere dell’autore, apprendiamo che Doolittle pensava che lo scrittore fosse un partner uguale agli attori. Gli attori dovrebbero avere la stessa autorità di scrivere recitando in quello che Doolittle chiamava “il copione vivente”». Il regista sceglie quindi di utilizzare la scenografia di un altro spettacolo dello stesso autore, “la vecchia spugna”, unendo le due opere. Ci viene quindi presentata la decisione artistica che ha motivato l’opera che vediamo rappresentata, della quale noi stessi (o meglio, il nostro punto di vista) facciamo parte ma senza partecipare attivamente, in quanto “vecchia spugna”.
Abbiamo quindi, in una sola scena, il rapporto dell’artista con la tradizione (il regista che recupera le opere dell’autore, autore che a sua volta metteva in questione la tradizionale distinzione tra scrittore e attore), la sua rielaborazione creativa e quindi la creazione di una nuova opera (l’assemblaggio delle due sceneggiature), opera che a sua volta mette in questione le condizioni del medium teatrale (il pubblico che è anche personaggio, o il personaggio che è solo spettatore).
Per quanto riguarda invece il costante rischio di fallimento nella produzione artistica, ovvero il mancato riconoscimento di un’opera come tale, la storia della creazione di Xanadu rappresenta al meglio il fallimento assoluto nella creazione di un nuovo medium. Non ogni oggetto solleva la questione dell’arte (“Cos’è l’arte?” o “È questo oggetto che ho davanti un’opera d’arte?”): qualcosa conta come arte solo nel momento in cui viene riconosciuta come tale. Ancora una volta, non ci sono criteri a priori attraverso cui verificare cosa conta e cosa no: le condizioni dell’arte vengono create da ogni nuova opera.
È compito dell’artista mostrare di cosa un’arte è capace, ovvero, creare le possibilità espressive del medium. Scrive infatti Stanley Cavell4: «One might say that the task is no longer to produce another instance of an art but a new medium within it». Non si tratta semplicemente di creare una nuova opera, ma di rinnovare il medium attraverso cui si esprime. Cavell esprime bene questa situazione in riferimento alle sculture di Anthony Caro, composte da diversi elementi assemblati tra loro:
The problem is that I am, so to speak, stuck with the knowledge that this is sculpture, in the same sense that any object is. The problem is that I no longer know what sculpture is, why I call any object, the most central or traditional, a piece of sculpture. How can objects made this way elicit the experience I had thought confined to objects made so differently?
Stanley Cavell, Must We Mean What We Say?, p.201.
In altre parole, chiamiamo queste opere “sculture” nonostante non siano scolpite. Prima che esistessero opere del genere, una scultura era definibile come un’opera d’arte prodotta scolpendo un qualche materiale, ma ora questa definizione non è più adeguata: ora che esistono sculture come quelle di Caro, le condizioni e le possibilità del medium sono cambiate, non per qualche decisione arbitraria, ma perché non possiamo fare a meno di riconoscere certe opere come sculture.
Di conseguenza, però, il fallimento artistico è ancora maggiore: non si tratta semplicemente di produrre un’opera che riscuote poco successo, ma di non riuscire a produrre un’opera. Scrive infatti Cavell: «the failure to establish a medium is a new depth, and absoluteness, of artistc failure». Questa profondità e assolutezza del fallimento è quella esperita in KR0 da Donald, Lula e Joseph, creatori di Xanadu, un supercomputer che però, a causa della muffa che continua a generare, non funziona correttamente. Doveva essere l’opera definitiva, l’eredità culturale dei suoi creatori, e invece rimane solo un rottame.
Xanadu si presenta, nel momento in cui interagiamo con esso, come una specie di avventura testuale nella quale scriviamo le azioni che vogliamo fare: tuttavia, l’avventura in questione è particolarmente noiosa e ripetitiva, al punto che l’episodio si conclude solo quando scegliamo – per sfinimento – di smettere di giocarci.
C’è però un altro aspetto di Xanadu particolarmente rilevante per il discorso sul modernismo. La storia stessa di questo “videogioco nel videogioco” comprende infatti la creazione dello stesso Xanadu. Stiamo quindi, in quanto giocatori “reali”, giocando a un gioco (KR0) all’interno del quale è stato creato un videogioco (Xanadu) nel quale si costruisce quello stesso videogioco. Il gioco, dunque, ci sta facendo giocare alla creazione di un gioco. Il videgioco, in altri termini, sta esplorando esplicitamente le condizioni del medium videoludico.
L’arte del gioco
Se però il “meta-gioco” Xanadu risulta un fallimento, il gioco Kentucky Route Zero riesce invece benissimo nell’affermarsi come una delle istanze più riuscite del medium videoludico, una di quelle che ne estendono i confini e le possibilità.
KR0 estende le possibilità del suo medium nel senso che mostra la potenza narrativa del videogioco come forma artistica. È un modo di dire: “guardate cosa si può fare!”. La storia di Kentucky Route Zero non è inferiore a moltissimi capolavori della letteratura e del cinema, ma non avrebbe potuto essere narrata diversamente senza le possibilità espressive del videogame. Allo stesso tempo, estende queste possibilità narrando una storia dallo spessore che altri videogiochi faticano a raggiungere.
Si tratta di un’avventura grafica, ma con molto testo. È un’opera letteraria, ma con del punta-e-clicca. Il medium videoludico è utilizzato in KR0 con una piena consapevolezza del suo potere: la regia è ricca di strategie originali e innovative; con musiche che contribuiscono a creare atmosfere uniche; la storia e i dialoghi sono intriganti e mai banali. Questa potenza del medium è mostrata da KR0 anche attraverso la sua appropriazione di stilemi e linguaggi di altri media: oltre alla narrativa e alla poesia americana, il gioco ingloba in sé scene tipicamente cinematografiche (una tra tutte, il pianosequenza della casa di Weaver della scena II del primo atto), dialoghi e sceneggiature teatrali (come abbiamo visto nel caso dell’intermezzo), composizioni musicali originali, riflessioni filosofiche e sociologiche.
Ma non si tratta solo di un citazionismo spinto. La difficoltà nel trovare un filo narrativo unico, vista la presenza di numerose linee tracciate o solo accennate, di racconti e narrazioni indipendenti, l’introduzione di molti personaggi particolari e sfaccettati è, di per sé, una “presa di posizione” contro quella generalità delle strutture razionali, quel superordine e quella presunta armonia di cui parlavano sopra e che il modernismo mette in questione. Questo non significa che KR0 sia un’opera confusa: al contrario, in essa tutto ha perfettamente senso e niente è lì per caso. Tuttavia, non è un’opera semplice: richiede dal giocatore non solo particolare concentrazione, ma anche un bagaglio culturale non indifferente per coglierne lo spessore. Non che per farlo sia richiesto l’andare a caccia di citazioni (tutt’altro), ma il “lettore ideale” di questo gioco è una persona abituata ad aver a che fare anche con molte opere non-videoludiche.
Non è quindi da sottovalutare il fatto che l’originalità di questo gioco e la sua maggiore complessità narrativa rispetto alla gran parte degli altri videogiochi rappresentano, sì, la sua potenza estetica ma, allo stesso tempo, costituiscono anche la sua debolezza commerciale. Kentucky Route Zero, in altre parole, estende le possibilità del medium e ne mostra al contempo i limiti: proprio la sua unicità nel panorama complessivo delle opere videoludiche è già una critica alla superficialità dell’utilizzo che si tende a fare dello stesso medium.
Tornare a casa: crisi e rinascita
Ho parlato di KR0 come opera modernista perché racconta di una cultura in crisi, bloccata e irrigidita, che reagisce producendo qualcosa di nuovo che riflette e mostra le condizioni della produzione stessa. Il gioco è un’analisi su se stesso e sulle sue origini (i riferimenti a Shannon e Weaver sono un omaggio ai primi studi della comunicazione informatica, e Xanadu è un prototipo dei primi videogiochi mai creati), ma reagisce alla tradizione rinnovandola. Questo è il tema principale del capitolo conclusivo: si seppellisce il vecchio per fare spazio al nuovo.
Il capitolo finale ruota sulla costruzione di una casa. Si tratta di un tema tipicamente romantico, centrale, per esempio, in Thoreau. Ma c’è anche un senso che si può riallacciare al modernismo di cui abbiamo parlato finora, un senso che è chiaro in espressioni come “sentirsi a casa”. L’artista modernista, infatti, non si sente “a casa” nella sua arte, la considera antiquata, irrigidita, illusoria. Lo stesso vale per i personaggi di Kentucky Route Zero. Il protagonista iniziale, Conway, è costantemente in viaggio e quindi non è “a casa” nel senso letterale, ma neanche nel senso metaforico: non sa chi è, da dove viene, dove tornare dopo aver finito il lavoro. Il bambino Ezra si trova nella situazione paradossale di vivere in un museo delle abitazioni, ma senza un posto che per lui, orfano, sia davvero “casa”. Emily, Ben e Bob percorrono la strada parallelamente a noi, e sono dunque sempre in movimento anche loro. Infine, anche tutti gli altri personaggi si ritroveranno in una terra devastata da un’alluvione, con le case distrutte e i fantasmi intorno.
Questa situazione di crisi e di perdita di ogni punto fisso, di non sentirsi a casa, di aver perso un contatto con il mondo, situazione nella quale si trovano i personaggi del gioco e dalla quale (alcuni di) loro usciranno costruendo insieme una nuova casa, è ciò che rende questa scena dell’atto quarto particolarmente significativa:
Il tema della casa sarà centrale anche dell’epilogo, l’“intermezzo” dopo la fine della storia. Parlando con il barista Harry, il regista Carrington cita Death of a Hired Man di Robert Frost, con particolare riferimento a questo passaggio:
‘Warren,’ she said, ‘he has come home to die:
You needn’t be afraid he’ll leave you this time.’
‘Home,’ he mocked gently.
‘Yes, what else but home?
It all depends on what you mean by home.
Of course he’s nothing to us, any more
Than was the hound that came a stranger to us
Out of the woods, worn out upon the trail.’
‘Home is the place where, when you have to go there,
They have to take you in.’
‘I should have called it
Something you somehow haven’t to deserve.’
Si parla dunque di “casa” prima come “quel posto dove, quando vuoi tornarci, gli altri devono accoglierti per forza”, verso che viene commentato da Carrington come “dal sottotesto cinico”, e poi come “qualcosa che non hai bisogno di meritarti”. Nella scena precedente, durante il funerale dei cavalli, questa frase era stata citata come definizione della misericordia, e anche ora infatti Harry ne parla come della grazia di Dio. Tuttavia, Carrington la interpreta come “un assunto morale”: ovvero, ognuno di noi ha un luogo che chiama casa, un diritto inalienabile, un luogo dal quale nessuno può escluderci. Alla domanda su chi sia a garantirlo se non Dio, la risposta di Carrington è “noi stessi”.
Questo è il portato etico del modernismo: l’unico modo per uscire dalla crisi è creare, assumendosi le responsabilità per il successo ma anche per il fallimento, un nuovo modo di fare arte. L’artista deve costantemente rinnovare la propria relazione con il medium, recuperare creativamente il senso dell’arte, costruire la sua casa. Questa è la stessa crisi di Conway: la sua vita non ha una direzione (“La Rotta Zero”), ed è solo nel suo viaggio. O meglio, ha il suo cane: da un punto di vista narrativo, l’espediente del cane è un’occasione per approfondire la storia e la psicologia di Conway, che con lui si confessa.
La confessione è uno strumento fondamentale nella terapia, nella soluzione di una crisi. Parlando con qualcuno, anche qualcuno che non risponde ma che ascolta (come il cane), si può arrivare, attraverso l’analisi di se stessi, a una nuova descrizione di sé. Quando riesce, la nuova descrizione di sé è in un certo senso una rinascita: non quella stabilita e determinata dalla procreazione genitoriale, e poi dalle autorità familiari e sociali, ma quella che un individuo si dà da sé. Una nuova o una seconda nascita nel senso che un individuo stabilisce lo stile secondo il quale pretende d'ora in poi di essere inteso e considerato dagli altri.
Il modernismo indica perciò un tale approccio ai problemi vitali, che sono problemi culturali, problemi delle forme espressive, in cui necessità e bisogni sono resi opachi e irriconoscibili e quindi non possono essere affrontati, non può essere data loro una risposta, e come tali generano infelicità. Il compito è quindi quello di portare alla luce ciò che abbiamo nascosto a noi stessi e che in quanto tale provoca sofferenza, che è un motivo importante anche in Freud. Da ciò deriva la necessità della chiarezza, della visione perspicua, della rappresentazione secondo nuove forme in cui emergano bisogni vitali a cui dare una nuova risposta, che è il tema caratteristico delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein.
Piergiorgio Donaetlli, Il lato ordinario della vita, p.14.
Tuttavia, questo lavoro artistico di ridescrizione della propria vita sembra non andare a buon fine per Conway, che alla fine non riesce a tornare a casa con gli altri. Egli non è riuscito a riappropriarsi di se stesso, a rinnovarsi dopo la crisi. È un altro dei vari artisti falliti che popolano il gioco, ma forse quello che paga il prezzo maggiore: lo vediamo infatti che viene preso dalla Distilleria, quel luogo kafkiano in cui nel gioco si ritrova a lavorare chi non ha fatto i conti con il proprio passato. Quest’altro passaggio della poesia di Robert Frost sembra una descrizione di quella sua ultima apparizione:
A miserable sight, and frightening, too—
You needn’t smile—I didn’t recognize him—
I wasn’t looking for him—and he’s changed.
Wait till you see.’
‘Where did you say he’d been?’
‘He didn’t say.
Il rischio del fallimento, l’abbiamo detto, è alto nel modernismo: l’arte è portata ai suoi limiti e se da un lato la tradizione viene messa in questione, dall’altro un eccesso di innovazione potrebbe produrre nonsenso e non venire quindi riconosciuto come arte. È vero che i criteri per cosa conta come arte non sono stabiliti a priori, ma ciò non significa che allora tutto conti come arte. Il fallimento
dell’artista modernista consiste proprio nella produzione di un’opera che non viene riconosciuta come tale. Allo stesso modo il suo successo consiste in una ridescrizione di ciò che intendiamo per arte.
Kentucky Route Zero cambia la nostra concezione del videogioco, ne fornisce una ridescrizione. Ora che esiste un’opera come KR0, quando parliamo di videogiochi bisognerà tenere conto del fatto che “videogioco” significa anche un’opera del genere.
Il lato ordinario della vita di Piergiorgio Donatelli (ilMulino, 2018) rappresenta un’ottima sintesi della nozione filosofica di modernismo.
Si veda, per esempio, La nascita della scienza moderna in Europa di Paolo Rossi per un’idea di come quei processi che hanno dato origine alla scienza convivessero inizialmente con concezioni quasi magiche del mondo, concezioni condivise dagli stessi promotori del pensiero scientifico.
Su questo tema, si vedano le meravigliose riflessioni di Stanley Cavell sul cinema in The World Viewed (del quale è da poco uscita la traduzione italiana)
Cavell, The World Viewed, p.103.