Il destino dei classici non è tanto quello di essere fraintesi, sorte comune di ogni comunicazione tra esseri umani, quanto piuttosto quello di essere fraintesi più a lungo e in modi più imprevedibili dei non-classici. Come diceva Godard, i grandi film sono grandi sempre per le ragioni sbagliate.
E se anche le interpretazioni di un’opera non siano sbagliate, tutte sono inevitabilmente parziali. Ogni critica fraintende qualcosa dell’opera che analizza. Fraintendere un’opera significa esercitare questa parzialità ineludibile. Per questo possiamo pensare alla critica come l’esplosione di fraintendimenti possibili, moltiplicazione di parzialità nella speranza, vana nella sua realizzabilità ma eroica nell’intenzione, di esaurire il linguaggio. Compito della critica, è quello di sottrare le interpretazioni e le letture al rischio dell’incrostazione della definitività. In questo la critica è un esercizio di sommesso e anticlimatico relativismo, nel senso che rimette le cose continuamente in prospettiva, inappagata da ogni finale, rievocandosi continuamente come fantasma, a causa della sua provvisorietà.
Oggi voglio fare un esercizio del genere, un esercizio di rilettura di un classico per provare a vederlo da una prospettiva poco frequentata e renderlo un poco più nuovo di quanto l’incrostazione prospettica comunemente accettata non lo abbia fatto diventare.
LEVEL DESIGN
Bloodborne è un videogioco del 2015 diretto da Hidetaka Miyazaki. L’interpretazione classica dell’ormai e già classico Bloodborne pone l’attenzione soprattutto sugli elementi di contaminazione mitica tra immaginario vittoriano gotico e quello della fantascienza lovecraftiana. Tuttavia, questa operazione è ancora solo una definizione di World Building, fondamentale nelle opere di Miyazaki, che sono molto più opere di costruzione di mondi piuttosto che di approfondimento psicologico dei personaggi. Dark Souls e Demon’s Souls, le opere precedenti a Bloodborne, sono opere profondamente epiche nella loro matrice narratologica: l’innesco drammaturgico della storia è sempre cosmogonico e quello che c’è in ballo è la natura cosmologica della realtà dentro cui muoviamo il nostro avatar. A prescindere dal fatto che i motivi narrativi di quelle due prime opere souls di Miyazaki finiscano per essere anti-epici e anti-eroici, quello che mi interessa in questo caso è l’ossatura narratologica di queste opere. In Dark Souls e Demon’s Souls si parla di concetti più che di personaggi, ed è questa caratteristica a definire la qualità epica (o anti-epica) di una storia. La Prima Fiamma, la Disuguaglianza, l’Età del Fuoco, la Fine del Fuoco, il Vincolo… tutto in Dark Souls ha il carattere e la portata universale dell’epica classica. Questo non significa affatto che sia banale, anzi, il rovesciamento tematico che Dark Souls riesce a compiere è tanto più interessante quanto invariata rimane la struttura che ne definisce la portata universale.
A livello di analisi più fine, tutti gli elementi e i meccanismi retorici congiurano a creare una atmosfera di universalità che è data dalla centralità topografica (in senso sia metaforico che letterale) dei luoghi dove la storia è ambientata. Il level design di Dark Souls è tutto compreso in uno straordinario solido tridimensionale interconnesso. Il modo in cui il mondo di gioco è arrangiato e costruito su sé stesso, definisce una atmosfera di centralità e universalità dei luoghi della narrazione in perfetta continuità concettuale con gli altri elementi ludici. La storia coincide con la Storia, che si è consumata esattamente lì dove ci muoviamo con il nostro avatar. Tutto è qui, a Lordran, compresso e inequivocabile, un solido da cui è impossibile fuggire, non solo perché non possiamo eludere il codice di gioco, ma soprattutto perché ogni fuga non sarà che un tornare indietro (la meccanica qui coincide con il messaggio), trovare davanti alla porta che ci fa mettere piede fuori da Lordran solo per smentirci e riportarci ancora più in profondità. Non si può scappare da Lordran. A livello iconografico, topografico e architettonico, questa monotematicità geografica è fondamentale ed è in linea con l’ambizione e i meccanismi narrativi del gioco. L’universalità passa prima di tutto ribadendo la centralità del territorio. Tutto è nato qui, tutto finirà qui e tutto ciò che c’è di importante è successo qui, in un luogo che non a caso è inestricabilmente interconnesso. Il fatto che il passaggio da nessuna area di gioco all’altra ha bisogno di un caricamento ma che è possibile andare a piedi da qualunque luogo all’altro, è un meccanismo ludico estremamente comunicativo, perfettamente in linea con l’impostazione narratologica del gioco.1 In Dark Souls non ci sono ostacoli di caricamento. Volenti o nolenti siamo sempre al centro del mondo, dove tutto “converge”. Pur se terre straniere esistono, tutti cercano di raggiungere Lordran, la terra del Vincolo del Fuoco, una vera “Terra Promessa” in senso religioso.
Analizzando la disposizione geografica del level design di Bloodborne ci si accorge subito delle differenze che lo allontanano dall’impostazione epica e centralizzata di Dark Souls. Prima di tutto non siamo in un regno, ma in una città, Yharnam. La pretesa narrativa è già da questo dettaglio totalmente diversa. La scala di ambizione di quello che succede non è definita dall’impostazione topografica del level design ma dai personaggi, primo elemento che avvicina Bloodborne più alla tradizione umanista del romanzo moderno che all’epica classica, in quanto a tratti narrativi: per questo il ruolo della lore in Bloodborne è ancora più importante che in Dark Souls, che è molto più autosufficiente rispetto alla comprensione della lore dei personaggi, perché sfrutta la narrativa ambientale in modo estremamente efficace e più profondo rispetto a Bloodborne.
Come si può osservare dalla mappa del gioco riportata qui sopra, ci sono molti luoghi di Bloodborne inaccessibili senza caricamenti in-game: Frontiere dell’Incubo, Castello di Cainhurst, Incubo di Mensis, Aula Magna dell’Incubo, e Sogno del Cacciatore, sono tutte location isolate. Inoltre un altro dato interessante è il fatto che le mappe che invece sono interconnesse, sviluppino la loro interconnessione in estensione orizzontale piuttosto che in verticale come faceva Dark Souls. Questa scelta comunica più decentramento e fa perdere il carattere universale ai luoghi diluendone l’importanza. In Bloodborne sembra sempre di muoverci ai margini, toccati da un importanza che appare contingente e non più necessaria e cosmologica come in Dark Souls. Poteva essere Yharnam, ma poteva essere qualsiasi altra città vittoriana e gotica. Lordran ha il carattere della necessità della storia biblica, della inappellabile decisione divina, Yharnam il caso dell’arbitrarietà degli uomini.
REGIA DELL’INCIPIT
In una storia, l’inizio e la conclusione hanno un’importanza capitale. Questo non significa che un buon incipit garantisca la buona riuscita dell’opera né che un buon finale ne vidimi la bellezza. Tuttavia essi sono elementi di analisi privilegiati anche solo pe un motivo triviale ovvero perché il fruitore li ricorda più chiaramente di quello che succede nel mezzo. L’inizio di Dark Souls è diametralmente opposto rispetto a quello di Bloodborne: la cutscene che apre il gioco del 2011 ha il carattere epico della cosmogonia, è un mito delle origini, pura costruzione di mondo, universalità e Storia. L’incipit di Bloodborne invece è provinciale, collaterale, contingente. A livello registico si fissa già tutta la differenza: Dark Souls si apre con un campo largo, il punto di vista dell’Occhio di Dio, del mondo avvolto nel grigio neutro degli Arcialberi, Bloodborne si apre con un POV, in una clinica sconosciuta e diroccata. Totalità contro parzialità individuale.
SCRITTURA DEI PERSONAGGI
Abbiamo analizzato le differenze nel level design, nella regia delle sequenze di apertura, ora non resta che analizzare sceneggiatura, personaggi e finale.
Per far passare meglio la differenza che corre tra i due titoli che sto analizzando potrei rischiare col dire che Dark Souls potrebbe funzionare senza i suoi personaggi, da Gwyn ad Artorias. Bloodborne no. Ovviamente è una esagerazione, ma ci siamo capiti. A proposito di personaggi, c’è un altra differenza fondamentale che separa i due capolavori di Miyazaki in quanto a impostazione narratologica, game design e messaggio: l’innesco della vicenda.
L’innesco della vicenda non va confuso con l’incipit. L’incipit è l’inizio dell’intreccio, ovvero della disposizione del racconto così come è stata voluta dall’autore. L’innesco è l’inizio della fabula, ovvero della storia nella sua successione cronologica che possiamo ricostruire dalle informazioni lasciate dall’autore nell’intreccio. Analizzare l’innesco della vicenda di Bloodborne è il punto fondamentale della mia rilettura dell’opera.
Comunemente, l’interpretazione standard del gioco è quella per cui da una apparente provincialità urbana con cui l’avventura inizia, la storia si allarghi su scale cosmiche, rivelando che l’ambientazione gotica e cittadina non era che un inganno per una storia che parla in realtà dei recessi cosmici nei quali è contenuta una verità insostenibile per gli esseri umani. Questa interpretazione è corretta ed è quella che ha decretato il successo di Bloodborne: la vertigine che provoca lo svelamento del mistero, nel gioco, ha il carattere di una rivelazione oscura e maledetta. Addentrarsi a Yharnam significa addentrarsi nella scoperta di un mistero demoniaco, che maledice chiunque osi rivelarlo. Dal piano delle bestie si scopre che l’origine di tutto è in realtà un piano celeste, cosmico e divino. L’opposizione terreno-divino, bestialità-umanità, cosmo-sotterranei, è una direttiva narrativa fondamentale nel gioco, così come l’opposizione tra i metodi della Chiesa della Cura e quelli di Byrgenwerth, tra l’evoluzione fisica della razza umana voluta da Laurence attraverso il Sangue Antico e quella intellettuale, grazie agli Occhi sull’Anima, di Master Willem. Ma la vertigine bloodborniana non si esaurisce nella scalata verso il cosmo, nella tensione verso il futuro della specie umana a cui tutti ambiscono nel gioco. Il vero nucleo tematico di Bloodborne non è rivelato dal progressivo avanzamento dal piano urbano a quello cosmico, bensì dal processo opposto, che nell’interpretazione standard viene sempre omesso, ovvero nel ritorno all’umano e in particolare in una caratteristica umana unica tanto quanto quella di pensare al futuro: la nostalgia del passato.
Al cuore di tutta la vicenda di Bloodborne non sta il piano cosmico dei Grandi Esseri, né quello Bestiale della Notte di Caccia, ma quello pateticamente umano della storia di Gehrman. Quello che nell’intreccio è inserito verso la fine della narrazione, nella fabula è l’innesco e la chiave per rimettere in prospettiva tutta la vicenda. Bloodborne, prima di essere la storia dell’ascesi umana nella nuova infanzia illuminata su un piano di esistenza superiore, ancor prima di essere la storia della Chiesa della Cura, delle istituzioni della somministrazione del Sangue Curativo, ancor prima di essere la storia di antiche accademie e tentativi di comunicazione con il divino, è la storia di un essere umano emarginato e solo.
Gehrman ci viene presentato fin dall’inizio come una sorta di consigliere nel Sogno del Cacciatore. Man mano che la storia avanza e che vengono introdotti nuovi personaggi scopriamo che doveva aver conosciuto e stretto un rapporto intimo con Ludwig, il primo cacciatore della Chiesa, Laurence, il fondatore della Chiesa stessa e Master Willem. Nella descrizione della Lama Sacra di Ludwig leggiamo inoltre che l’Officina della Chiesa della Cura aveva modificato l’approccio originario di Gehrman alla caccia delle belve. Questo ci dice che Gehrman ha iniziato a operare prima della fondazione dell’officina della Chiesa. Nella descrizione leggiamo che l’officina della Chiesa si è “discostata dalle tecniche di Gehrman.” Il termine “discostare” indica quasi un sottotesto di rifiuto e mancato riconoscimento della Chiesa nei confronti di Gehrman, che poi si dimostrerà tale più avanti. Un tratto fondamentale del personaggio, per come ci viene presentato, a livello di scelte registiche e di sceneggiatura, è il suo legame con l’Automa. Gehrman sembra esserne il disinteressato proprietario, tanto che ci offre di usarlo come surrogato sessuale se lo desideriamo. Il fatto che ce lo offra indica allo stesso tempo che è lui a deciderne ma che ormai è un giocattolo che per lui ha perso la funzione che aveva in passato.
Nel corso della vicenda troveremo un altro personaggio profondamente legato a Gehrman: Lady Maria. Nella descrizione delle sue vesti si legge che, oltre ad essere stata una studentessa di Gehrman, nutriva “grande ammirazione per lui, ignorando la sua curiosa mania”. Da questo punto in poi, la storia di Gehrman diventa sempre più ambigua. Collegati a questi due personaggi ci sono diversi oggetti e location che fanno chiarezza sulle loro caratterizzazioni:
Vecchia Officina Abbandonata: location identica al Sogno del Cacciatore, accessibile dalla Torre di Cathedral Ward. Qui troviamo, tra le altre cose, l’automa abbandonato e senza vita e l’osso del vecchio cacciatore
Osso del vecchio cacciatore: trovato davanti a una tomba alla Vecchia Officina Abbandonata. La sua descrizione recita che l’osso apparteneva a un cacciatore il cui nome è andato dimenticato, ma si dice che fosse uno studente di Gehrman. La cosa curiosa è che la descrizione giapponese evita riferimenti al genere di questo studente, conservando l’ambiguità che si perde nella traduzione inglese in cui viene usato il maschile. Inoltre la tomba su cui troviamo l’osso è la stessa dalla quale, nel Sogno del Cacciatore, accediamo al DLC, all’interno del quale troviamo Lady Maria. La stessa tomba, è un luogo dove possiamo trovare l’Automa nel Sogno del Cacciatore, intenta a pregare.
Abiti dell’Automa: nella descrizione degli abiti dell’automa leggiamo che la cura e la rifinitura dei suoi abiti testimoniano l’importanza che doveva avere per il suo proprietario. Nella stessa descrizione si fa riferimento al fatto che quella cura fosse al limite della mania.
Subito prima di incontrare Lady Maria nel DLC, passiamo per un giardino di girasoli (in realtà giraluna). Il girasole è simbolo di adorazione e ossessione, e si può far risalire questa simbologia al mito greco della Ninfa Clizia, che ossessionata dal Dio Apollo (dio del Sole), passa le giornate a seguire il suo percorso nel cielo finché Apollo stesso impietositosi per il suo triste destino non la trasforma in girasole.
A proposito di girasoli, la spilla che Lady Maria indossa sopra la cravatta nel suo set, raffigura proprio un girasole. L’automa, ha una spilla identica, ma di colore diverso, addirittura con lo stesso numero di petali. A proposito di ossessione.
Questi dettagli di lore, fanno emergere un quadro abbastanza chiaro. Gehrman era innamorato di Maria, ma dal tono supponente e inquietante delle descrizioni sembra che non fosse ricambiato e che abbia costruito l’Automa sul modello di Maria, ma che lo abbia poi abbandonato essendo solo una copia sbiadita dell’originale. In effetti dopo aver sconfitto Maria l’automa ci dice di sentirsi diversa, come liberata.
Tutto ciò che riguarda Gehrman sembra segnato dalla stessa caratteristica, paradossalmente una caratteristica opposto a quella che dirige l’interpretazione classica di Bloodborne, che è l'evoluzione verso il futuro: l’ossessione per il passato. Far rivivere Lady Maria nell’automa ne è solo un esempio. Gehrman ci parla spesso dei cacciatori e delle usanze del passato, rievoca in sogno Willem e Laurence, parla spesso delle partiche dell’officina con tono nostalgico e rievoca ricordi nebulosi nella sua mente come se si fosse imposto di dimenticarli per il dolore, a partire dal suo stesso nome, che pronuncia con difficoltà, o quello di Ludwig. A poco a poco si costruisce dunque la sagoma di un personaggio solo e malinconico, che rievoca il passato con nostalgia, facendosi carico di guidare i cacciatori nel loro incubo di sangue e belve, quasi come se fosse un sottoposto al nostro servizio di cui allo stesso tempo percepiamo l’autorità sommersa. Quasi come un’eco.2
Analizziamo ora per finire il finale della sua storia, che coincide non a caso con il finale del gioco. Dopo aver posto fine al rituale iniziato da Mensis, Gehrman ci offre la liberazione dal terribile sogno del cacciatore. Se accettiamo ci risvegliamo a Yharnam con l’alba. Rifiutando, invece, Gehrman ci affronta per farci svegliare forzatamente e cacciarci dal Sogno. L’analisi dell’introduzione del finale di questo personaggio è fondamentale. Tutto quello che succede da ora in poi nel gioco, parla di Gehrman e della sua umanità. Dopo l’ascensione sul piano divino e la scoperta di verità insostenibili per la mente umana, torniamo dove tutto è cominciato, con un uomo disperato e solo. Questa disperazione non è mai sbandierata, ma è interiorizzata a tal punto nella scrittura che emerge in modo significativo quando Gehrman si rivolge a noi. Quando si alza per combattere, Gehrman dice:
Tocca sempre all’aiutante dei cacciatori, mettere tutto in ordine, dopo questi eventi.
Queste parole dicono più di quanto appaia. Sembra che Gehrman, come abbiamo visto sopra, fosse poco riconosciuto dagli altri personaggi, che invece erano riusciti a fondare istituzioni di importanza capitale nella storia. Gehrman si definisce “aiutante dei cacciatori”, in modo autocommiserativo, ma allo stesso tempo quasi a rinfacciare ai suoi “amici”, la poca considerazione che gli avevano riservato. Anche in questo momento, Gehrman sta rimpiangendo il passato. Senza amici, emarginato, rifiutato dalla donna che amava e costretto a godere di un surrogato meccanico della sua bellezza, Gehrman è un personaggio che non ha nulla della tragicità ambiziosa di Laurence e Ludwig, ma che è solo patetico e drammatico, nel modo più umiliante e disperato. Un personaggio solo, che nonostante ciò, quasi come fosse una ironia amara e impietosa, può fregiarsi del titolo maledetto di “Primo Cacciatore”. Prima del potere guadagnato dalla Chiesa, delle illuminazioni divine di Willem, Gehrman è il cacciatore solitario e afflitto, che con la sua disperazione e il suo rimpianto così umani, darà inizio al Sogno del Cacciatore.
Basta quella scritta sullo schermo a creare un forte effetto drammaturgico: Gherman, il Primo Cacciatore. Il suo titolo non è corredato dall’istituzione a cui appartiene, non è il primo cacciatore della Chiesa. Dal richiamo proprio a Ludwig, risalta l’abilità retorica di Miyazaki, che ci fa credere per gran parte della storia che Ludwig sia il primo cacciatore tout court, per poi smentirci nel finale, senza dircelo, ma mostrandolo nel nome del Boss, quasi come se Gehrman rifiutasse il titolo che gli ricorda il trattamento che la realtà gli ha riservato, nella misura della distanza dalle aspettative che il suo stesso titolo avrebbe dovuto ingenerare e che è stato promemoria del suo fallimento. Infine, la scelta di una musica malinconica ed elegiaca, quasi funebre, con un incedere lento e sommesso, rendono la boss-fight un capolavoro per densità comunicativa.
Alla fine scopriamo che Gehrman è il responsabile del Sogno a cui noi siamo vincolati. Il motivo della sua responsabilità chiude il cerchio e fa chiarezza sul vero tema di Bloodborne, che più che l’evoluzione, è la nostalgia ossessiva del passato. Nella sua disperazione nostalgica, Gehrman richiama la Presenza Lunare, un Grande Essere, probabilmente per intercedere e riportare in vita Maria o riuscire a conquistarla. Come effetto imprevisto, tuttavia, la Presenza Lunare vincola Gehrman al Sogno, condannandolo a un rimpianto eterno e inesauribile da cui non potrà fuggire perché non potrà morire, una situazione, questa sì, di natura tragica.
L’oggetto che otteniamo alla fine della boss-fight è la conferma definitiva del nucleo tematico del passato al centro del gioco, e contiene una delle descrizioni più evocative di Bloodborne:
"Questo distintivo da cacciatore, realizzato ai tempi di Gehrman, non ha alcuno scopo pratico, tranne forse quello di aiutare a romanticizzare il passato.
Il distintivo era un privilegio speciale per i cacciatori del passato e non doveva essere disonorato.
Dovrebbe essere lasciato in pace, a meno che non si sia veramente preparati ad assumere la volontà di coloro che ci hanno preceduto."
CONCLUSIONE
L’innesco, a livello narrativo, è così svelato. Non i Grandi Esseri, la Chiesa o Byrgenwerth. Solo il disperato tentativo di un uomo di cambiare il passato. La storia di un fallimento senza riscatto.
Paradossalmente è dunque proprio Bloodborne, quello che tra i souls sembra il più teso a una dimensione di scoperchiamento epico e cosmico della narrativa, a rievocare invece una dimensione di individualità umanista tipica del romanzo moderno, alla creazione della quale concorrono tutti i meccanismi della grammatica dell’opera, dalla sceneggiatura alla regia. La profondità e la scrittura dei personaggi, condensati in una densità espositiva altissima (penso anche al meraviglioso e brevissimo confronto macabro con la testa di Ludwig) distanziano Bloodborne da Dark Souls e lo rendono un’opera di personaggi, profondamente umanista, nella capacità di tratteggiare la fragilità umana in modo impietoso ma non denigratorio e cinico, senza l’illusione della redenzione finale, ma evitando il distacco ironico tipico della rappresentazione della meschinità umana e allo stesso tempo senza rendere eroica l’afflizione dell’emarginato. Solo un grande autore riesce a rimanere nel mezzo, usando una dolcezza rappresentativa che non diventa mai giustificazione narrativa, nei confronti della sofferenza umana.
A parte l’arrivo ad Anor Londo, ma questo ha una giustificazione interna nel gioco, in quanto Anor Londo deve simboleggiare, di nuovo a livello geografico, la divinità e l’altezza della perfezione a cui è destinata.
Altro riferimento fondamentale al passato sono gli Echi del Sangue, la valuta principale del gioco, nascosto in bella vista.