Roguelikes, maestri di vita
Una serie di spunti sull'evoluzione dei giochi difficili e sul perché ci interessano ancora.
Ho letto e apprezzato i due articoli sui roguelikes di Leonardo Pizzirani, che trovate qui e qui. Ho deciso comunque di pubblicare questo mattoncino, primo perché l’avevo già scritto, e comunque perchè ci trovo un diverso approccio.
Nel mondo gaming da tempi immemori è frequente incontrare la polemica sul fatto che i generi e le formule di successo risultano essere sempre gli stessi nonostante quasi 50 anni di storia sulle spalle del medium. I rischi che un game designer è disposto a correre sono modesti, specie nel caso di una produzione economicamente sostanziosa. É cosa nota poi che nel tempo il mercato del videogioco si è espanso al punto da far girare un quantitativo di risorse economiche complessive maggiori di quelle del mondo del cinema. Se l’idea è quindi dover vendere ad un grande pubblico (anche perché i costi di produzione sono moltiplicati) suona perlomeno controintuitivo creare per scelta un gameplay rigorosamente punitivo nei confronti del giocatore, perlomeno da quando si compra il gioco intero e non una singola partita. Infatti la tendenza generale negli anni è stata quella di livellare verso il basso sia la complessità generale che la difficoltà delle grandi produzioni, ottenendo spesso un “feel” specifico da gioco moderno che “prende per mano” il giocatore e lo accompagna morbidamente tra le sfide che gli pone davanti evitandogli la frustrazione, il più possibile. Sono pressoché standard alcune caratteristiche di quality of life e lo sono indipendentemente dalla scelta del livello di difficoltà e della corrispondenza di quest’ultimo a effettivi scogli potenzialmente forieri di rage drop prematuri; lo scopo è chiaramente di permettere la fruizione a più persone possibili, al punto che si comincia a discutere di quali caratteristiche dovranno avere i giochi che avranno come target (anche) un pubblico senile, un argomento che suppongo sia interessante per molti qui dentro. La scelta, ad esempio, di non inserire una mappa consultabile all’interno di un gioco che prevede la componente di esplorazione, da una parte genera la sensazione avventurosa di “perdersi” nella meraviglia (che una parte del pubblico magari apprezza), dall’altra risulta una scelta quasi sempre irricevibile; difficile chiedere al giocatore occasionale che dedica al gaming un paio d’ore nel fine settimana di ricordare mentalmente una grande mappa senza annoiarlo. Con queste premesse si nota con facilità la tendenza delle produzioni ludiche a dividersi tra quelle studiate per rivolgersi a un pubblico “generalista” e quelle - indipendenti o comunque a budget contenuti - che sperano più che altro di conquistare una nicchia di mercato, generalmente composta da appassionati che tendono a impiegare molto tempo sui giochi, quelli che una volta avremmo definito nerd, con un certo orgoglio (o anche no).. Una delle conseguenze di questo inevitabile trend è stato ovviamente l’affermarsi di giochi “difficili”, volutamente in controtendenza, tra cui spiccano le ormai ben note tags “souls-like” e “rogue-like”.
Nei 20 anni intercorsi tra il 1980, anno di uscita di “Rogue” e la fine del secolo, l’insieme dei roguelikes è effettivamente rimasto confinato a una piccola nicchia di super puristi legati principalmente al pc gaming. Per questo ventennio individuare delle caratteristiche chiare risulta più facile, e si parla ancora di un genere ben definito. Rogue, genitore 1, è un “dungeon crawler” o alternativamente un “RPG hack and slash” rigorosamente a turni in cui si deve esplorare un dungeon piano per piano e arrivare a scendere nel luogo più profondo e impervio allo scopo di recuperare una particolare reliquia. Le caratteristiche che definiscono il roguelike sono più che altro meccaniche di gioco o elementi di game design piuttosto specifici e non l’aderenza a una particolare ambientazione o agli stilemi classici del genere, in particolare:
Permadeath. L’impossibilità di usare liberamente i salvataggi e rendere quindi ogni sconfitta all’interno del gioco definitiva per quel playthrough, forzando a ricominciare la partita da zero esattamente come fu nei cabinati arcade che esigevano la monetina.
Generazione procedurale. Le mappe di gioco sono generate all’inizio di ogni partita da un algoritmo più o meno complesso in modo da rendere ogni partita diversa. Spesso oltre agli ambienti di gioco anche nemici, armi, drop o potenziamenti in genere sono più o meno creati a caso dal software e magari ci sono elementi che hanno effetti diversi per ogni run e questi sono ignoti al giocatore fino a che non li identifica sulla propria pelle, comportando anche effetti totalmente negativi.
Senza questi due elementi non si può parlare di roguelike. Anche lo storico primo “Diablo” (Blizzard, 1996) generava randomicamente le strutture dei livelli di gioco, le caratteristiche delle armi e dei loot in genere fungendo da precursore nel portare queste meccaniche al grande pubblico, ma l’assenza di morte permanente come caratteristica fondativa lo ha sempre escluso formalmente dalla definizione. Nel 2008 una conferenza tra sviluppatori del settore a Berlino ha cercato di canonizzare ancora più elementi per chiarificare cosa definisca esattamente un roguelike, quasi come Von Trier e compagni danesi fecero col Dogma 94: Secondo questa sorta di manifesto (verrà ricordato come “the Berlin Interpretation”) per fregiarsi della definizione di roguelike, oltre alle già citate proceduralità e morte permanente, il gioco (prendete fiato) deve essere a turni, deve prevedere risorse limitate, deve essere single player e si deve poter controllare un solo personaggio, deve essere strategicamente complesso in modo da consentire soluzioni multiple a un problema, in ogni momento di gioco devono essere disponibili tutte le opzioni per il giocatore, i mostri occupano lo stesso spazio del giocatore all’interno di una griglia e rispondono alle stesse regole di gioco, avendo loro accesso addirittura ad un inventario. Preciso, strutturato, pure troppo.
Alla luce dell’Interpretazione di Berlino risulta piuttosto ironico che il 2008 fu quasi esattamente l’anno in cui cominciarono ad apparire (e soprattutto a vendere) giochi che prendevano a prestito solo alcuni tra questi parametri inserendoli nei remix di generi e meccaniche e avvicinandosi ai gusti attuali. Chi tra i più giovani è venuto a conoscere questo universo lo ha fatto presumibilmente con titoli molto diversi da Rogue, Nethack, Dwarf Fortress e compari, che essendo in gran parte giochi in ASCII e quindi letteralmente senza grafica, nel loro innegabile fascino erano, sono e saranno condannati perennemente alla nicchia vera. Nei titoli di successo usciti dopo il meeting di Berlino si trova qualunque combinazione di elementi: “The Binding of Isaac” è un action in tempo reale; “Faster Than Light” (aka FTL) è anche lui in real time, si controlla non un personaggio ma l’intero equipaggio di una nave stellare e non ha pressoché nulla del dungeon crawler; in entrambi i “Risk of Rain”, action game frenetici lontanissimi da un role playing game, addirittura le mappe non sono generate proceduralmente (c’è solo un reshuffle di elementi secondari). Eppure generalmente non viene messa in discussione la loro appartenenza al filone “roguelike”, o al più “roguelite” (sempre “come Rogue” ma leggero). Perché è palese che l’intuizione determinante per far arrivare questi giochi ad essere apprezzati da molti sia stata quella di proporre partite sì brutali ma di breve durata, che si possano affrontare in una singola sessione di gioco. C’è da dire che la definizione di roguelite è essa stessa oggetto di dibattito. Qualcuno parla di roguelites solo per i titoli che hanno la caratteristica della progressione orizzontale, ossia quelli che prevedono di rendere il personaggio un pochino più forte ogni volta che si perde e ricomincia, permettendo il mantenimento di caratteristiche o valuta di gioco ottenute in partite precedenti. “Rogue Legacy” o il più recente e premiato “Hades” sono l classici titoli che si citano. Difficile dirimere questo tipo di questioni, d’altro canto chi sono io per andare a dire a uno studio che il gioco lo crea e lo vende su steam e lo definisce col tag “roguelike” che sta sbagliando? Comunque la si pensi, a qualunque livello di integralismo ludico ci si riconosca, il fenomeno è in espansione tale per cui un titolo in qualche modo nipote di Rogue è arrivato ad essere uno dei pochi titoli di lancio disponibili per la PS5, ossia “Returnal” (Housemarque, 2021). Non avrà avuto il budget di realizzazione di “Red Dead Redemption 2” ma è un buon esempio per capire che ci siamo allontanati parecchio dagli studi di 50 metri quadri composti da game designer, programmatore, grafico e musicista. Mi azzardo a supporre che molti si trovino in difficoltà a giustificare un prezzo di 80 €uro per un “giochetto a generazione casuale” ma questo non è il punto: anche nel mainstream ormai è chiaro che morire virtualmente molte volte e farlo portando poco rispetto alle divinità è diventata una caratteristica assai gradita a una discreta fetta di players, addirittura su console (se la vita fosse un roguelike classico a questo punto mi avrebbe aggiunto lo status poison solo per aver nominato “console”).
Da qui in avanti tenterò di ribaltare un po’ la prospettiva, in modo da provare a capire quali sono gli aspetti che vanno a titillare il giocatore nel profondo: visto che il più delle volte affrontare un titolo del genere è letteralmente masochismo sembra ragionevole chiedersi perché si prova una compulsione a farlo lo stesso. Parlare di dipendenza è molto comune nel settore per tante ragioni diverse. Il tema è complesso, la mia conoscenza della psicologia francamente nozionistica, eppure tendo a pensare che le software house davvero subdole abbiano compreso chiaramente a forza di trial and error e analisi delle statistiche quali meccanismi funzionino davvero per incollare le menti deboli avanti agli schermi e non sono certo che il mondo del roguelike ci rientri. Non con tutte le scarpe almeno. L’interessante articolo di Domenico Esposito, su questo stesso sito, analizza in dettaglio molte delle meccaniche che creano dipendenza eppure, focalizzandosi principalmente sui giochi MMORPG o comunque multiplayer, coglie dei punti che sono sia analoghi che diametralmente opposti.
Cominciamo col dire che un roguelike, prima di tutto, è un gioco difficile, ma osiamo di più, è un gioco escludente. Non importa quanto difficile possa risultare un Re senza Nome o un Orfano di Kos, la formula affermata dei souls-like prevede che una volta morti ritorneremo serenamente al falò, con il nostro equipaggiamento intatto, la partita assolutamente al sicuro nel suo file di salvataggio, potremmo aver perso le nostre anime, la valuta di gioco, potremo aver dato sfogo alla nostra blasfemia creativa, ma nessuno ci chiede di ricominciare il gioco dall’inizio. La sensazione di morte interiore che si prova alla scomparsa del nostro avatar nei roguelike è per questo molto differente.
L’unico vero gioco pienamente canonico che ho affrontato in toto e preteso con me stesso di finire “costi quel che costi” è “Sword of the Stars: the Pit” (2013, Kerberos). Dungeon Crawler a turni che più classico non si può, lo scopo è arrivare in fondo a un grande dungeon generato proceduralmente, piano dopo piano. É lì che ho compreso come ci si sente svuotati dopo che il proprio personaggio muore di malattia al ventottesimo piano del dungeon (sui trenta previsti) dopo una run durata venti ore.
Tu muori e il gioco ci mette una frazione di secondo a cancellare il file di salvataggio. Puoi quasi sentirlo ghignare. Tutto il cibo meticolosamente raccolto e poi cucinato e rigorosamente immagazzinato, tutte le nostre armi modificate per essere più durevoli e più penetranti, tutti gli oggetti raccolti con la speranza di fare crafting utile a generare ulteriori risorse per arrivare a quel cazzo di trentesimo piano, tutta la fatica fatta per insegnare lentamente ad un ingegnere a sparare con un fucile d’assalto… tutto bruciato in un istante. Vuoi salvare per forza? Puoi andare a cercare il file di salvataggio e fare una copia di backup, è chiaro. Ma poi riusciresti a guardarti allo specchio la mattina? Mi capitava che di fronte all'insensibilità della schermata di game over facessi brutali rage quit (quegli ALT-F4 che salvano la vita) e passassi quarti d’ora fissando il muro a elencare mentalmente tutto ciò avevo perduto.
É comune che il giocatore abbia la sensazione di essere morto ingiustamente, che il gioco, proprio perché autogenerato in ampie sue porzioni, lo abbia posto di fronte a un ostacolo sproporzionato al suo potere. Magari l’algoritmo di generazione si è premurato di rifornirlo di armi, munizioni e medicine ma ha permesso che il cibo scarseggiasse al punto da farlo morire di fame. In teoria dovrebbe essere indice di scarso game design, come minimo dovrebbe risultare indizio di scarsa cura nella proceduralità; l’algoritmo di generazione è fatto in modo tale da generare partite che è pressoché impossibile vincere, ciò appare come una palese violazione della “teoria” attorno ai videogiochi.
Eppure, se chiedi a qualunque giocatore appassionato ti risponderà che la gratificazione e il divertimento derivano esattamente da questi aspetti palesemente ingiusti, al punto che “losing is fun” e “live, die, repeat” sono ormai slogan quasi stereotipati che guidano questo tipo di players. Financo nel podcast del Post a tema videogiochi “Joypad” i conduttori - lontanissimi dalla giovinezza - li definiscono amabilmente giochi “mortaccini” e riconoscono loro caratteristiche che si sposano perfettamente con ciò che cerca il quaranta/cinquantenne annoiato dall’aver abusato in vita di ogni sorta di prodotto ludico. E’ normale, proprio perché la frustrazione è perennemente dietro l’angolo, associare il tipo di soddisfazione che si trae dagli RNG alla vita adulta. Ipotizzo sia derivante dalla costanza richiesta nella concentrazione e sopratutto dalla capacità di adattamento e improvvisazione. Il gioco non ti ha dato abbastanza cibo? Certo, la partita è ora più ardua ma se il gioco è strategicamente complesso a sufficienza avremo comunque varie opzioni: smetti di esplorare ogni angolo e inizia a tirare dritto, ad esempio, anche se va contro il tuo stile di gioco. Adattati alle sfighe che ti genero in faccia o perisci.
Anche giochi e generi lontanissimi dai roguelike negli anni hanno rubacchiato idee qua e la per tentare di soddisfare l’appetito di sfida estrema dei giocatori maggiormente tendenti all’autolesionismo inserendo la modalità Ironman, l’equivalente della permadeath, ossia il gioco che ti disabilita i salvataggi in faccia per impedirti di barare (o almeno, permettere un quicksave solo all’atto di uscire dalla partita per ritrovarla tale e quale nella prossima sessione senza possibilità di abusare dei caricamenti). Addirittura un gioco enorme e iper complesso come “Europa Universalis IV” di Paradox, simulazione di rapporti tra soggetti “statali” storici, in cui la singola partita dura decine di ore e copre 450 anni di storia umana dalla presa di Costantinopoli all’era Vittoriana, sblocca i propri achievement solo se lo si gioca in Ironman, a sottintendere che sia da considerarsi l’esperienza di gioco standard. Il team svedese ti guarda sornione e con questa scelta sottointende che chi si diletta a fare load/save sia un mezzo cheater che non ha la stoffa del leader e dovrebbe darsi al birdwatching, l’uncinetto o Fortnite. Hai tentato di invadere la Russia e sei stato preso prevedibilmente a schiaffoni? Ricomincia da capo, investici altre 25 ore, la prossima volta ci pensi meglio.
Forse il più famoso, affascinante e contemporaneamente tossico rappresentante del roguelike/lite (post)moderno è proprio “The Binding of Isaac”. Nato nel 2011 dal pazzo Edmund mcMillen, il gioco è stato nel tempo perfezionato ed espanso a dismisura, DLC dopo DLC. Recentemente giunto con la sua ennesima (e ultima) enorme espansione “Repentance” a risultare un vero e proprio freak show. Il pattern cerebrale che genera quella voglia di andare avanti si illumina d’immenso a causa delle infinite combinazioni tra centinaia di oggetti a disposizione e degli effetti paradossali e grotteschi che questi potrebbero generare su gameplay ed estetica del nostro deviato protagonista. Isaac ha tutte le caratteristiche per essere il perfetto roguelite d’azione. Grafica pixelloso/truculenta ben rappresentativa della psiche di un bambino instabile, lore delirante a sfondo psicologico e ultracattolico, gameplay adorabile da bullet hell schizzato, tonnellate di segreti. Perfettamente aderenti a loro volta alla “religione” dell’unlock degli achievement, i giocatori di Isaac vanno avanti a generare miliardi di partite randomicamente in una scatola dei balocchi virtuale che, nella versione attuale, fin troppo estesa, ha l’inquietante potenziale per intrattenere un giocatore per letteralmente migliaia di ore.
Cosa rende le umane genti così portate ad accettare una sfida così brutale il cui costo in tempo reale rischia di essere enorme? Intanto si può azzardare che per i “vecchi” players sopravvissuti agli anni 80/90 con le loro tendenze alternative che hanno visto il videogioco diffondersi a macchia d’olio e diventare super mainstream è immensamente soddisfacente continuare a sentirsi diversi, a sentirsi “veri gamer” (brividino). Il vicino di scrivania in ufficio che si sente videogiocatore per il fatto di avere Cristiano Ronaldo versione platino nel suo Ultimate Team di Fifa pagato lautamente con le ore di straordinario rafforza questo desiderio di essere alternativi. Non è un caso che la metà dei roguelike di successo siano indie graficamente spartani, retrò o addirittura sviluppati in pixel art (o come citato proprio ASCII nei casi estremi). Non è difficile immedesimarsi in una nicchia che trova soddisfacente il fatto che un videogioco gli ponga dei limiti grossolani e “unfair” come sono poi quelli che pone la vita stessa. Evidenti le strizzate d’occhio all’effetto nostalgia dei tempi in cui il gioco era creato difficile semplicemente perché il giocatore doveva pagare cash ogni singola partita ai tempi di coin-op e sale giochi. Il roguelike è poi da sempre il tempio del giocatore a cui interessa solo il single player, difficile che chi ha buttato complessive 300 ore in vari anni in un titolo assolutamente estraniante come “Nuclear Throne” (c’est moi) sia poi una personalità a cui interessa confrontarsi online con persone sconosciute. In alcuni casi i titoli prevedono la possibilità di giocare in cooperativa insieme a un amico accontentandosi dello split screen (di nuovo, in puro spirito arcade). La modalità co-op di solito è egualmente brutale, perché i giochi tendono a dare ai giocatori le stesse risorse che darebbero nella partita singola, obbligando non solo alla cooperazione ma alla coordinazione e alla pianificazione.
Impossibile non citare la pratica comune di inserire nei giochi un generatore di seed, un codice univoco che associa una stringa di testo alla generazione procedurale, permettendo a giocatori di tutto il mondo di vivere il paradosso tutto postmoderno di sfidarsi indirettamente attraverso punteggi in ladders quotidiane composte da effimeri mondi single player, si generati a caso ma comunque uguali per tutti per quella specifica giornata reale. Il daily. Sadico rito pagano per dare allo sviluppatore l’engagement quotidiano e non indurre il cliente in tentazione di disinstallare tutto. E anche un po’ per ricordare al nerd brizzolato quanto erano belli i salvataggi consollari con le password di una volta (è sarcasmo).
Insomma, il roguelike è rappresentazione raffinata del confronto tra se stessi - uomini mortali e necessariamente limitati - e le asperità imprevedibili della vita. Sul palco/monitor si rappresenta la quintessenza dell’inutilità di uno sforzo sovrumano e prolungato nel tentativo di adattarsi alle situazioni più varie, incluse quelle senza speranza di vittoria. Omerica impresa e contemporaneamente possibile addiction delle più ficcanti e palesi.
L’uso degli elementi randomici spesso ricorda fin troppo i meccanismi da gioco d’azzardo già ampiamente criticati. Non siamo certo in presenza di lootbox ma è evidente che continuare a sviscerare ogni angolo di un dungeon sperando che l’RNGesù ci droppi una cura o un’arma migliore dal punto di vista della produzione di neurotrasmettitori deve avere per forza delle lontane analogie col Texas hold’em. In questo Blizzard con quel già citato Diablo, purtroppo chiaramente spartiacque, fu davvero malvagiamente astuta nel copiare e raffinare i pochi elementi roguelike che servivano per generare lo stesso grado di dipendenza e riuscire ad applicarli a un gioco che fosse al contrario molto poco sfidante, alla portata di chiunque fosse in grado di fare clickclickclickclickclick ad libitum.
Chiuderei con quella che è una mini-recensione ben esplicativa di un’esperienza personale. Da poco ho giocato il brillante “Caveblazers”, giochillo sviluppato da una studio di tre persone pagato in offerta ben due euro. Action in real time d’esplorazione 2D in pixel art con generazione delle mappe totalmente procedurale. Dungeon crawler e contemporaneamente figlio di “Spelunky”. E, lo devo ammettere, uno dei giochi più bastardi con cui mi sono scontrato.
Non è implausibile che le prime partite durino 60 secondi, prima di morire male. Nonostante la sua apparente semplicità di platformer, prenderci le misure non è immediato. Vincere una partita richiede di superare 10 livelli e 5 boss. Bisogna imparare tutti i pattern dei mostri, tutti i boss, acquisire molta destrezza col pad visto i tempi estremamente rapidi e sperare contemporaneamente che il gioco sia magnanimo da fornire una serie di abilità e oggetti che si incastrino e creino sinergie in modo tale da rendere il personaggio capace di stare dietro al passare dei livelli e al conseguente aumento di sfida. C’è un inventario e un menù di statistiche ma accedervi non mette il gioco in pausa (contento Hidetaka?); un mostro che dovessimo non vedere e ignorare mentre beviamo pozioni o scambiamo le armi impiega pochi secondi a mandarci al creatore. Una run vincente dura meno di un’ora, tutto è estremamente rapido e asciutto, da questo punto di vista sembra l’esatto contrario di Isaac. Non saprei dire cosa mi abbia spinto a continuare a maledire tutti i profeti e continuare a provare per 33 ore fino al tentativo #263 in cui ho infine battuto il boss finale (rigorosamente in tre fasi).. Ma attenzione, se faccio una conversazione tra me stesso e l’ego lo so benissimo: il gioco, tramite steam, ti palesa il fatto che il 92,2% dei possessori di Caveblazers non riescono a finirlo (“sono l’elite”). Durante l’animazione di morte del boss tra le esplosioni pixellose e le mie grida di vittoria bambinesche e sgraziate un solo pensiero: prendere il telefono e registrare un video come prova dell’impresa da inviare al mio vicino di casa, compagno di cooperative serali modificate in presenza nell’inverno pandemico immancabilmente fallimentari. Unico commento del sottoscritto in sottofondo al video, quasi fra le lacrime, non è stato “sono felice”, “finalmente ho vinto” ma un inquetante “sono liberooooooo”.